Si possono tranquillamente definire «affari di famiglia» quelli che la procura di Milano ha tratteggiato nell'atto di chiusura delle indagini sul governatore della regione Lombardia Attilio Fontana, accusato di frode in pubbliche forniture e inadempimento di contratti in pubbliche forniture per un lotto di camici venduti alla stazione appaltante Aria, la centrale acquisti regionale (una sorta di Consip lombarda), dall'azienda del cognato Andrea Dini, indagato anche lui.

In totale sono cinque le persone finite sotto formale inchiesta: con Fontana e Dini c'è anche l'ex direttore di Area Filippo Bongiovanni, la dirigente Carmen Schweigl e Pier Attilio Superti, direttore dell'area Programmazione e relazioni esterne di Regione Lombardia, vicario del segretario generale. È caduta, ma era nell'aria, l'accusa di turbata libertà di scelta del contraente in capo a Bongiovanni e Dini.

Conflitto di interesse

Per i pm che hanno indagato nell'ultimo la anno la chiave logica di tutto è il conflitto d'interesse nel quale si sarebbe infilato Fontana accettando l'offerta di vendita della Dama, l'azienda di famiglia partecipata anche dalla moglie Roberta che nella primavera del 2020 aveva cercato di piazzare alla regione Lombardia un lotto di 82 mila camici totali e altri dispositivi di prevenzione del virus. La Dama è conosciuta per il marchio di alta gamma Paul & Shark, che navigava in pessime acque come tutto il suo settore per i pesanti lockdown decisi dai governi di mezzo mondo dopo lo scoppio della pandemia. L'idea coltivata da molte imprese del tessile e abbigliamento è stata quella di riconvertirsi alla produzione di camici, mascherine e quant'altro sarebbe servito per evitare la diffusione del coronavirus, in modo da mantenere in funzione le produzioni e tamponare il conto economico. Così aveva fatto anche la storica azienda varesina che aveva trovato nella Regione una sponda commerciale nel silenzio di un particolare non da poco: quell'opaco conflitto d'interessi che la legava al governatore.

Tutto questo, però, è solo la premessa della frode, che si sarebbe commessa secondo i pm milanesi Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas, quando la notizia del conflitto era emersa e i due protagonisti di questa vicenda avevano cercato, in fretta e furia, il modo per riparare. Artifici “concordati”, li chiamano gli inquirenti, messi in opera allo scopo di “tutelare l'immagine politica del presidente Fontana”. Ovvero far diventare quella vendita una donazione alla regione, per i 50 mila camici già consegnati e provare a rimettere sul mercato il resto della commessa per recuperare la perdita. Di questo presunto accordo di famiglia, che sarebbe stato confermato durante gli interrogatori da alcune persone coinvolte nella vicenda, gli atri indagati si sarebbero fatti esecutori senza neanche avvertire il consiglio di amministrazione di Aria. Quei camici, sequestrati dalla procura durante le indagini, non sarebbero mai arrivati ad Aria, per il rifiuto della donazione dopo lo scoppio dell'inchiesta. Alla fine Andrea Dini li ha donati alla Croce Rossa.

Soldi di Fontana

Per rendere la pillola meno amara a Dini, il governatore Fontana si era reso disponibile a compensare parte del mancato introito di tasca propria, utilizzando la disponibilità di un conto personale in Svizzera amministrato fiduciariamente da Unione Fiduciaria. Il bonifico da 250 mila euro spiccato in favore di Dini fu bloccato, però, perché avrebbe violato le disposizioni antiriciclaggio com'era emerso da una segnalazione sospetta di Banca d'Italia. Da questa segnalazione era nata anche la seconda tranche dell’inchiesta, solo a carico di Fontana, che mirava a ricostruire la storia di qui quei conti esteri, il primo acceso nel 1997 dalla madre ex dentista nel 1997 e con un saldo di circa 5,3 milioni di euro nel momento della scoperto. Su quel conto, fatto emergere con la voluntary disclosure nel 2015, Fontana aveva una delega ad operare fino al 2005. In quell'anno viene aperto un altro conto, che Fontana eredita alla morte del genitore e che regolarizza con la voluntary. Per i pm parte di quei soldi – 2,5 milioni di euro – non erano della madre e il governatore finisce indagato anche per autoriciclaggio e falso in voluntary, per i quali si è difeso con una memoria che tira in ballo altri due conti rimasti sempre segreti che servirebbero a risolvere l'arcano sulla provenienza dei soldi. C'è una rogatoria in Svizzera che pende e se ne saprà qualcosa di più se le autorità elvetiche vorranno rispondere alle domande degli inquirenti italiani. In caso contrario si andrebbe verso un'archiviazione.

Per Jacopo Pensa, avvocato di Fontana, «il presidente non si riconosce per come è stata ricostruita la vicenda» mentre Giuseppe Iannaccone, che difende Andrea Dini, parla di «buona fede» del suo cliente nel suo operato, che emergerà «con chiarezza» durante il confronto che ci sarà nei prossimi giorni.

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