Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Luigi Ilardo cercava tutela, si era fidato delle istituzioni mettendo la sua vita e le nostre nelle loro mani. Le sue confessioni hanno fatto pagare il conto alla mafia, ma hanno lasciato impunita gente corrotta e deviata, che si nasconde dietro la nostra bandiera, dietro le nostre istituzioni.

Quella parte di stato marcia che offende e tradisce chi, con grande senso morale e del dovere, combatte e tenta di salvaguardare la società rischiando la propria vita. Offende tutti quegli uomini che ogni giorno, uscendo da casa, salutano i propri cari come se fosse sempre l’ultimo giorno, indossando una nobile divisa e mettendo in pericolo la propria incolumità per tutelare noi cittadini, al misero costo di una manciata di pane. Papà aveva intenzione di rivelare tutte le interconnessioni e gli affari sporchi che da sempre legano la mafia alla parte di Stato malata.

Il latitante Bernardo Provenzano, in questa triste storia, ne è la conferma, come tanti altri illustri mafiosi che hanno beneficiato della copertura di alcuni esponenti delle istituzioni, in cambio di favori, di richieste, di voti alle elezioni, della gestione di terre impervie come la Sicilia, dove neanche lo Stato riusciva a entrare e governare.

La sua sfumata cattura, nel giorno del blitz mancato, ne è la più amara conferma. Era tutto pronto, c’erano gli uomini, le armi, le auto e gli elicotteri. E qualcuno ha dato lo stop, sacrificando per sempre la vita di mio padre che, nonostante l’avesse rischiata nell’esatto momento in cui varcò la porta di quel casolare, non ottenne nulla se non la firma della propria condanna a morte.

Questo è ciò che mi genera più rabbia, la sua illusione di proseguire, il suo non aprire gli occhi quando era chiaro, certo e palese che lo stavano utilizzando solo nella speranza di qualche arresto clamoroso e qualche medaglia all’onore. Io non ho rancore nei confronti del colonnello Riccio, ma non capisco come uomini di perspicacia e intelligenza rara, quali lui e mio padre, non avessero capito che entrambi erano stati usati come pedine per l’ennesima trappola.

E allora avrebbero dovuto fermarsi. Avrebbero dovuto correre ai ripari. Sapevano perfettamente cosa rischiavano, soprattutto mio padre, dopo aver portato lo Stato in quel maledetto casolare senza nessun risultato e con la più clamorosa delusione di sempre. La mafia non guarda in faccia nessuno, uomini, donne, bambini, avvocati, magistrati.

Oggi per qualche verso sento me e i miei fratelli come miracolati; forse dovrei – sembrerebbe assurdo – anche ringraziare mio zio, che non ha permesso di toccare noi innocenti, ma non il responsabile di quel progetto di tutela nei confronti di Luigi Ilardo e della sua famiglia che non venne mai attuato. Questa è la triste realtà di come funzionano le cose in un mondo che gira al contrario.

Dover ringraziare i «cattivi» e non i «buoni», perché quei buoni, o meglio chi doveva esserlo, sono stati peggiori di loro. Per lunghi anni ho nutrito rancore nei confronti del colonnello Riccio, perché ho sofferto per i suoi silenzi, per me incomprensibili. Oggi, infine, la mia maturità mi ha permesso di comprendere che le sue scelte furono dettate dalla volontà di proteggerci da eventuali strumentalizzazioni. Esserci ritrovati mi dà forza.

Chi non perdonerò mai sono quei grandi uomini corrotti delle istituzioni che la sera del 10 maggio 1996, alle ventuno, probabilmente stavano cenando o si apprestavano a farlo con le loro famiglie intorno, mentre io e i miei fratelli toccavamo la morte con le mani, con i nostri vestiti imbrattati di sangue, con le vite per sempre spezzate a causa delle loro inadempienze, delle loro leggerezze, dei loro sporchi traffici.

Ma chi si odia di più: gli spietati assassini che non hanno fatto altro che, con coerenza, rispettare il loro protocollo, o chi è stato infame fino alla fine tradendo il più sacro e nobile giuramento verso la patria? Hanno assicurato «gli sciocchi» alle galere, ma chi ha stoppato quel blitz dov’è? Chi ha «spifferato» la volontà di mio padre dov’è? Chi ha fatto sapere ai mafiosi l’intenzione di denunciare le alte cariche dov’è?

Sono a casa, nella peggiore delle ipotesi, nella migliore si trovano in lussuosi alberghi senza chiedersi in quale disperazione hanno lasciato esseri umani come me. Ho patito la fame, ho saputo vivere senza una lira in tasca e con la beneficenza e l’affetto delle persone che avevo intorno, ho usato carta igienica al posto degli assorbenti, ho subito sfratti, utenze tagliate, ogni tipo di denigrazioni, falsità e giudizi da parte delle persone, per una vita e delle scelte imposte da altri.

I miei fratelli sono stati vittime di bullismo, di insulti, di discriminazioni. Avevano poco più di dieci anni quando, un giorno al mare, per una futile lite durante una partita di pallone, i compagni di gioco li chiamarono «figli di cornuto e sbirro, di un pentito di merda». Non sapevano nulla della nostra vera storia e fu proprio in quell’occasione che fummo costretti a raccontare tutta la verità, o quasi.

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