Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


Nel pomeriggio, Cetty mi disse che quella sera lei e papà avevano deciso di passare un po’ di tempo da soli, non accadeva dalla nascita dei gemelli, cioè esattamente da nove mesi. Avevano deciso di andare a mangiare una pizza e avrebbero lasciato in custodia a me e mia sorella, per la prima volta, i gemelli e Iury. Nonostante fosse venerdì sera, giornata di nostra spettanza per uscire, a ridosso del clima di sofferenza e tensione che si respirava a casa per noi fu doveroso concedere loro quel momento di intimità che avevano perso da tempo. Intorno alle diciannove e trenta iniziarono i preparativi, Cettina ci aveva dato tutte le indicazioni per svolgere al meglio il nostro «incarico».

Sarebbero stati una cena e un rientro veloce per l’apprensione della responsabilità assegnataci, ma noi eravamo ben soddisfatte di godere quel momento da brave sorelle maggiori. Cetty tentò di addormentare Giuliano, mentre io portai Giancarlo, un po’ indisposto, nel salone poco illuminato cantandogli una ninna nanna per cullarlo. Addormentato Giuliano, Cetty venne con fare nervoso a togliermi Giancarlo dalle braccia per occuparsene lei; non mi piacque il suo comportamento, ma feci finta di nulla. Addormentato il gemello, andò in doccia e cominciò a truccarsi con un telo addosso. Erano le venti e quindici circa quando squillò il telefono, Francesca rispose e mi chiamò per passarmi papà.

La sua voce affettuosa mi disse ciò che poco prima aveva raccomandato a mia sorella: «Amore di papà, non vi arrabbiate se stasera non potrete uscire, ma Cetty e io abbiamo necessità di avere un momento per noi... Vi prego, fate le brave e prendetevi cura dei gemelli e di Iury nel miglior modo possibile, noi mangiamo una pizza veloce e torniamo subito a casa... fatelo per papà!». Io gli risposi tranquillizzandolo, anzi aggiunsi che eravamo contente per una volta di comportarci da sorelle maggiori. Ignara di quello che si sarebbe consumato da lì a trenta minuti.

Quella fu l’ultima volta che sentii la voce dell’uomo che più ho amato nella mia vita. Mi trovavo in bagno con mia sorella a scherzare sul trucco che Cettina aveva utilizzato, spesso la prendevamo in giro per la quantità che ne consumava e lei, mandandoci a quel paese, scherzava a sua volta, giustificandosi.

10 maggio 1996

Sentimmo la saracinesca automatica del garage, collocato sotto il bagno in cui eravamo, il segnale che papà era arrivato e che, come da abitudine, stava scaricando qualcosa al suo interno prima di far scendere Cetty e uscire. Passarono forse un paio di minuti, quando la quiete di quella sera del 10 maggio 1996 fu lacerata da un assordante rumore.

Fino ad allora, non avevo ancora mai udito una raffica di spari. Non sapevo cosa stesse accadendo, ma ebbi subito la certezza che quel maledetto rumore avesse a che fare con lui. Iniziammo tutte e tre a gridare come pazze. «Papà! Gino!» In una frazione di secondo corsi come il vento verso la porta di casa seguendo Cettina in reggipetto e sottana. La scena che mi si presentò davanti fu la più brutta, inaspettata, atroce che mai vidi nella mia vita. Mio padre riverso a terra in una pozza di sangue, crivellato di colpi. Credo che al mondo non possano esistere parole degne per tentare di descrivere quello che il mio cuore provò e i miei occhi videro. Mi buttai a terra accanto a Cettina, che era distesa vicino al suo uomo.

Giunse anche Francesca. Cercai di sollevare la testa di mio padre, cercai di fare qualcosa... ma cosa?! Era ancora caldo, forse era ancora vivo... il suo sangue era addosso a me... a Cettina... a Francesca, china anche lei. Eravamo tre donne straziate. Le lacrime e la nostra disperazione mi facevano urlare come la peggiore delle pazze.

Ripetevo: «Ti prego... non andare... non ci lasciare... Rispondimi... ti prego... ti supplico, parlami... Parlaci!». Mai più udii una sua parola, mai sentii risposta a quella supplica che avrebbe straziato il cuore a qualsiasi essere umano e resuscitato qualsiasi morto. Mai più udii la sua voce. Rimasi in quella posizione, ferma, paralizzata, nessun muscolo riuscì a compiere più alcun movimento. L’incubo più brutto della mia esistenza aveva preso vita. Non so quantificare il tempo, ma iniziarono ad arrivare decine di persone, auto della polizia, carabinieri, folla incuriosita... i miei occhi vedevano, la mia mente era assente, incapace di realizzare ed elaborare qualsiasi pensiero.

Alcuni cercarono di scostarci da lui, di allontanarci. Ricordo un momento in cui riuscirono ad alzarmi da terra nonostante scalciassi come il più imbizzarrito dei cavalli, picchiando chiunque si avvicinasse a me, aggredendo qualsiasi persona tentasse di toccare mio padre e, soprattutto, di separarci. Mia sorella buttata per terra, piangendo, ripeteva come un automa: «È morto? È morto? Ti prego, dimmi che non è morto... che è vivo!». «Amore mio, papà è morto... hanno ucciso nostro padre, papà non c’è più... Ci ha lasciate.» La accompagnai dentro casa. Cettina, non ricordo più dove fosse, era di certo distrutta dal dolore: avevano ammazzato il suo amore, il padre dei suoi figli. […].

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