Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Luigi Ilardo il pentito di mafia che aveva deciso di collaborare con la giustizia e che è stato ucciso il 10 maggio del 1996, cinque giorni prima di entrare nel programma di protezione. Ilardo stava portando gli investigatori verso il latitante Bernardo Provenzano.


La vicenda Ilardo, signori giudici popolari, non può essere letta – come pure, soprattutto mediaticamente, si è tentato per anni di fare – nel senso di – la tecnica è sempre la stessa – minimizzare, parcellizzare, ridicolizzare. La vicenda Ilardo non può essere letta, come si è tentato per anni, come la vicenda deputata a stabilire esclusivamente chi e per quali ragioni decise di non intervenire il 31 ottobre ’95 a Mezzojuso.

Quello è un passaggio, probabilmente è il meno importante di un percorso molto più complesso che ci deve portare a capire perché i carabinieri del Ros, teoricamente la punta dell’Arma più avanzata nel contrasto investigativo antimafia, non svilupparono, neppure successivamente al 31 ottobre e all’incontro che quel giorno Ilardo ebbe con Provenzano, le immediate, preziose, precise, articolate, dettagliate informazioni che Ilardo, attraverso Riccio riversò immediatamente ai carabinieri del Ros.

Questo è il cuore. Informazioni sui luoghi dove si svolgeva la latitanza di Provenzano, informazioni sui luoghi e sui casolari dove Provenzano incontrava gli altri uomini d’onore, sui soggetti che materialmente in quel momento – e poi vedremo, capiremo per quale incredibile lasso di tempo – gestivano la latitanza del Provenzano. Tutto questo mentre quegli stessi carabinieri, l’odierno imputato Mori in prima persona, parallelamente a questa gravissima omissione operativa, ometteva di informare l’autorità giudiziaria di quel preziosissimo apporto conoscitivo che Ilardo aveva loro riversato.

E perfino gli altri colleghi, perfino le articolazioni territoriali interessate dello stesso Ros e perfino la Sezione anticrimine Ros di Palermo – lo schema è sempre quello: non fare e non comunicare. Ripercorriamo, allora, necessariamente i passaggi principali di questa vicenda. Dopo aver chiesto un colloquio con il dottor De Gennaro, già nell’ottobre del ’93, mentre era detenuto presso la casa circondariale di Lecce, Ilardo iniziò a offrire una collaborazione di natura confidenziale alla Dia e in particolare al colonnello Riccio, che venne delegato dopo il primo colloquio, che si svolse con De Gennaro e dott. Di Petrillo, dallo stesso De Gennaro.

La collaborazione si intensificò nel momento della scarcerazione dell’Ilardo nel gennaio del ’94 e si protrasse con risultati sempre più significativi fino al 10 maggio ’96. Fin dall’inizio – questo è importante, lo hanno testimoniato anche De Gennaro e Di Petrillo – fin dal primo contatto con De Gennaro e Di Petrillo, Ilardo prospettò la sua disponibilità, una volta uscito dal carcere, a infiltrarsi, a reinserirsi in Cosa nostra alla quale apparteneva da tempo, a fornire in diretta notizie sull’organizzazione.

Fin dall’inizio, Ilardo precisò ai suoi interlocutori che le finalità essenziali della sua collaborazione sarebbero state due: da una parte ottenere il contatto diretto e personale con Bernardo Provenzano, per poterlo fare arrestare, e dall’altra fornire un contributo informativo importante sulle stragi del ’92 e del ’93 con particolare riferimento ai moventi, ai mandanti esterni a Cosa nostra.

E ciò anche sfruttando le pregresse conoscenze ed esperienze dirette che aveva avuto anche per le sue origini familiari, per il suo inserimento, anche da un punto di vista del vincolo familiare di sangue, antico ed importante in Cosa nostra, nel Gotha dell’organizzazione mafiosa, per i suoi contatti con la ’ndrangheta ed esponenti non soltanto siciliani e calabresi, appartenenti all’area dell’eversione di destra. Signori giudici popolari, sapete chi è Ilardo.

È figlio di un vecchio mafioso massone, il quale aveva, grazie al solito schema dell’appartenenza alla Massoneria, dei rapporti talmente importanti con persone importanti, che per anni, per decenni, forniva – attraverso un regolare contratto stipulato con la pubblica amministrazione – all’esercito dei carabinieri i muli. Allevava i muli nella sua azienda di Lentini, e aveva l’esclusiva della fornitura degli animali per i reparti dei carabinieri e dell’esercito che avevano necessità di questi animali.

Siamo a un livello veramente notevole, anche da un punto di vista delle conoscenze, anche da un punto di vista della famiglia. Gli scopi erano questi due ed effettivamente questo scopo dichiarato venne, nel periodo della collaborazione informale con il colonnello Riccio, accompagnato dal conseguimento e dal raggiungimento di risultati eccezionali.

Mai, mai, veramente, non temo di poter essere smentito, mai erano stati conseguiti risultati qualitativamente e quantitativamente di tale importanza con un’unica attività investigativa. Mai, attraverso un rapporto confidenziale tra un mafioso e un esponente delle forze dell’ordine, erano stati conseguiti risultati di questo tipo specifici, numerosi, importanti. Mai. Nemmeno ai tempi della collaborazione del boss Di Cristina con il colonnello Pettinato, perché lì era una collaborazione confidenziale importante ma di scenario, certamente non di individuazione dei covi dei latitanti.

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