Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tratteremo il tema del caporalato e del lavoro che diventa schiavitù, arricchendo padroni e padroncini.

Le agromafie non sono certo un fenomeno arretrato o circoscrivibile all'intero di sistema economici primitivi. Esse si nutrono di terra e diritti, ma anche di legalità, giustizia e delle possibilità che offre il sistema di produzione agricolo e non solo. Si trovano nella filiera dell’italian sounding, come l’Eurispes rileva e denuncia da anni. Riescono inoltre a delocalizzare imprese e denaro ovunque nel mondo a seconda dei propri criminali interessi e del complesso di relazioni che riescono ad intrattenere con pezzi della politica, della finanza, delle libere professioni e della pubblica amministrazione.

In un articolo del magazine dell’Eurispes, a febbraio del 2021 si dava ad esempio la notizia di un'operazione condotta a fine gennaio scorso a Salerno e precisamente nella zona di Capaccio-Paestum, dove operava una delle aziende agricole più importanti della provincia, la Italat-Paestum srl, con una filiale operativa nella città di Zimbor, nel distretto di Salaj, in Romania, dove affermava di produrre la «vera mozzarella italiana».

In realtà, secondo gli inquirenti, le imprese delocalizzate facevano parte di un insieme di altre società che, a vario titolo, sarebbero tutte riconducibili all’imprenditore Roberto Squecco, arrestato il 20 gennaio scorso dalla Polizia, considerato peraltro il referente di un complesso di società che gestivano le ambulanze e le onoranze funebri tra Agropoli, Acerno e Capaccio (Salerno). Le indagini, inoltre, hanno portato al sequestro di beni per complessivi 16 milioni di euro, coinvolgendo una galassia di proprietà e assetti societari intestati a prestanome, a cui gli inquirenti sono arrivati ricostruendo una serie di fatture false e società aventi come unico scopo quello di celare speculazioni e traffici illeciti. Ovviamente si tratta di operazioni rese possibili solo grazie ad alcuni liberi professionisti e alla permeabilità dei sistemi normativi ed economici europei. Il provvedimento ha interessato anche un terreno di 4.600 metri quadrati, destinato ad attività del settore caseario, che si trova proprio a Zimbor, a poca distanza dall’azienda. Squecco, secondo gli inquirenti, sarebbe vicino al clan camorristico dei Marandino, attivo a Capaccio-Paestum e in altri comuni della Piana del Sele. Quella stessa Piana che ospita aziende agricole che producono la cosiddetta “quarta gamma”, ossia prodotti agricoli confezionati in buste o vaschette di plastica e venduti in banco refrigerato.

In quest’area esistono diffusi casi di sfruttamento del lavoro, con impiego di lavoratori immigrati per molte ore al giorno, spesso in condizioni precarie che li espongono ad incidenti molto raramente denunciati. Kevin, un bracciante maliano di 26 anni impiegato proprio nella Piana del Sele, intervistato da Amnesty Italia per una sua prossima ricerca, afferma: «In campagna ci vado in bicicletta quasi tutti i giorni. Per me è importante lavorare per avere soldi e mandarne a casa… Se ci fosse qualcosa di meglio lo farei senza problemi… nessuno mi dice dove devo lavorare ma i proprietari delle aziende mi contattano direttamente per lavorare ogni tanto da uno per qualche settimana e poi da un altro… Mi pagano 20 euro al giorno alcuni e 30 altri. E faccio tutto quello che c'è fare. A volte lavoriamo anche 12 ore al giorno… no, non usiamo mascherine. Io la uso solo quando vado o torno dal lavoro per non avere problemi coi Carabinieri ma in azienda lavoriamo senza… anche quando diamo i veleni o i prodotti chimici non abbiamo mascherine e guanti. Siamo sempre liberi...lo so che è pericoloso ma non voglio chiedere nulla al datore di lavoro perché altrimenti non mi richiama...».

Affari sporchi

Insomma, il brutale sfruttamento del lavoro si associa a sistemi di delocalizzazione e speculazione delle agromafie a livello europeo. Si tratta di due gambe che tengono insieme e in piedi il medesimo sistema di interessi e relazioni. La delocalizzazione delle agromafie in Europa, infatti, non è certo poco rilevante.

In un'intervista rilasciata a Sergio Nazzaro ancora per il magazine dell’Eurispes, Francois Farcy, che dal 2001 è in forze nella Polizia Federale Belga dove si è occupato di criminalità organizzata, dalle mafie italiane alla criminalità organizzata albanese e quella cecena, afferma che: «La mafia italiana è insediata in Belgio da molto tempo, specialmente in alcune zone. Cosa Nostra e la Stidda a Liegi, Charleroi e Mons, meno a Bruxelles ed Anversa. Famiglie legate alla ’Ndrangheta sono insediate a Limburg e coinvolte nel mercato della droga ad Anversa (come ad esempio la famiglia Aquino). Ci sono anche quelli che chiamiamo i gruppi criminali italo-belgi di tipo mafioso, coinvolti in diverse attività criminali in relazione con l’Italia. Per esempio gruppi belgi che operano con la Camorra di Napoli e sono coinvolti nel traffico di auto e di denaro falso».

Sempre Farcy fa notare che «l’Albania è uno dei paesi che conta il maggior numero di società di import-export di banane in Europa, per dare un’idea chiara. In realtà, sono anche coinvolti su larga scala nell’organizzazione e nel controllo di molte piantagioni di cannabis. Molte di queste produzioni vengono smantellate ovunque in Belgio, ogni settimana».

Insomma le agromafie si sono insediate stabilmente in Europa e di certo si muovono abilmente anche all'interno del sistema lobbistico di Bruxelles, avendo come referenti soggetti in doppio petto in grado di fare i loro interessi a partire dall'agevolazione di operazioni di riciclaggio.

Ovviamente anche in altri territori la musica criminale non cambia. A Marano, ad esempio, vicino Napoli, secondo il collaboratore di giustizia Domenico Verde «...si vende esclusivamente la carne delle aziende di Giuseppe Polverino», ossi del clan Polverino. Un monopolio che, in realtà, riguarda anche altri settori: «il clan Polverino», dice ancora il pentito, «controlla tutte le attività economiche maranesi: panifici e macellerie, tanto che non c’è un panino a Marano che non provenga da zio Totonno. Con questa espressione voglio dire che la fornitura del pane è del tutto controllata da Polverino Antonio detto zio Totonno, zio di Polverino Giuseppe».

Al clan dei Polverino sono stati sequestrati beni per un miliardo di euro che coinvolgevano anche la Spagna. Il dominio camorristico partiva da Napoli, Villaricca, Quarto, Qualiano, Pozzuoli e nel quartiere Camaldoli di Napoli, per poi allargarsi in Spagna, e precisamente a Barcellona, Alicante e Malaga. Nel caso specifico sono stati sequestrati 106 appezzamenti di terreno, 175 appartamenti, 19 ville, 18 fabbricati di vario genere, 141 locali tra box auto, negozi e magazzini, 43 società di capitale, cooperative, aziende agricole, supermercati, alberghi, ristoranti, bar, panifici, gioiellerie, negozi vari; 14 imprese individuali; 117 autovetture, 62 autocarri e 23 motocicli. Insomma attività criminali redditizie esportate in Europa con successo dal clan, che coinvolgevano anche aziende agricole e attività commerciali di grandi dimensioni.

Uscire da un’ottica nazionalista o peggio ancora regionalista delle mafie è fondamentale per un'efficace azione di contrasto contro il crimine organizzato, perché si possa estirpare con un impegno europeo una delle dimensioni più preoccupanti delle agromafie che è quella che permette a padroni e padrini dell'agricoltura di bussare alle porte di Bruxelles e di entrare senza alcun problema nelle stanze del comando.


 

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