È stato la tivù a colori del tennis. Esiste un prima e un dopo Nick Bollettieri: e se oggi, nello sport e pure altrove, la figura del guru – spesso, anzi, preferibilmente senza titoli – è socialmente accettata, quando quel ragazzo si congedò dai parà americani e decise di vivere di cesto e racchetta lo avevano preso per matto.

Nato Nicholas James Bollettieri a Pelham, periferia di New York, nel 1931, Nick era figlio di Rita De Filippo, casalinga, e James Thomas, farmacista.

Una famiglia medioborghese, tanto da potersi permettere di mandarlo all’università. Ma la sua folgorazione fu l’esercito: uscito da quella scuola di disciplina squadrata, restò con l’idea di poterla applicare in qualunque campo. Pure quello da tennis.

Capitò per caso che uno zio, tale John Lightfoot (Gianni Pieleggero) gli chiedesse di fargli da assistente per palleggiare un po’.

Fu un’illuminazione mistico-finanziaria: «Mi piacque tantissimo, quello sport. Soprattutto, mi servivano soldi e decisi di continuare, mollando la facoltà di legge. Non sono mai stato un tennista professionista ma Dio mi ha concesso il dono di osservare. E di saper valutare i talenti degli altri».

Per il vero, Nick Bollettieri non è mai stato neppure un tennista medio: semmai, era un tennista negato ma un uomo dal cervello fino e dalla mente che vedeva più lontano degli altri.

Dopo aver fatto qualche soldo come istruttore in un hotel di lusso a Puerto Rico, accettò una proposta per trasferirsi a Miami, «che manco sapevo dove si trovasse».

L’idea, però esisteva eccome: creare una caserma del tennis. Altro che il club dove la gente giocava a bridge e tirava due palle soffici e gentili all’ora del tè.

Sedici ettari di palude bonificata a Bradenton, comprati grazie all’altro suo dono naturale – accompagnarsi a clienti e genitori di allievi danarosi – e, nel 1978, la fondazione di una fabbrica sportiva che doveva essere attrattiva più o meno come i primi alloggi messi in vendita da Silvio Berlusconi a Milano 2, persi nel nulla della prima Brianza.

Torri di guardia

La Nick Bollettieri Tennis Academy poggiava sulla solida mentalità del luogotenente dell’esercito: file geometriche di campi, ben ordinati uno accanto all’altro.

Una torretta di guardia, pardon, di osservazione dalla quale, col megafono, il coach potesse rimbrottare il ragazzino che si allenava sul campo uno così come il bancario impegnato sul court 75 (non è un refuso) là in fondo, dalle parti delle recinzioni a mo’ di galera.

I primi volantini pubblicitari invitavano, accanto a una sua immagine-icona (abbronzato, smanicato, con gli Oakley a specchio sugli occhi) ad affidarsi a «un uomo di valori, in un mondo di compromessi».

Vivere chez Bollettieri era come anticipare, o rivivere, la naja: colazione alle 6:50. A scuola alle 7:30. 11:45, pranzo in rigorosa tenuta da tennis per non perdere tempo.

Dalle 13:30 alle 18, tennis. Dalle 18 alle 19, cena. Dalle 19 alle 20:30, studio. Dalle 20:30 alle 22, tempo libero ma vietati fumo, alcool, droghe, gomme da masticare, turpiloquio, effusioni, sesso. Ore 22:30, luci spente. Sabato: mezza giornata di tennis. Domenica: libera.

Quel campo marziale mischiato allo sport nobile per eccellenza divenne un innesco per un nuovo modo di interpretare il tennis. Iniziò a spargersi la voce.

Un giorno, l’ex pugile iraniano Emanoul Aghasi (sic) portò uno dei suoi figli, Andre, a scuola da quel coach sufficientemente tirannico per godere della sua stima.

Insieme, Bollettieri e Agassi – americanizzato tale – posero le basi per un gioco che non esisteva: l’attacco da fondocampo. Fare il punto col dritto e col rovescio, non con la volée.

Bollettieri era maniacale nell’imporgli di tirare forte, di non arretrare (a costo di colpire da fondocampo in mezzo volo: una bestemmia, per i tempi).

Andre ci mise il resto: ribelle e iconoclasta, rifiutava le polo bianche e i pantaloncini attillati. Scendeva in campo con jeans sbrindellati, tagliati sopra il ginocchio con le forbici, magliette multicolori, i capelli meshati. Ogni tanto, scappava dalla caserma per farsi una canna.

Nel 1986, quell’Agassi che Lendl definiva «un dritto e un taglio di capelli», accompagnato da un coach senza titoli né carriera, venne accolto sul circuito come si fa con un giovane plagiato da un ciarlatano.

Nel 1992, Agassi violò il Tempio di Wimbledon. Ma Bollettieri non era un maestro da villaggio turistico, buono solo per accalappiare i ricchi allocchi? Visti oggi su YouTube, i video dei loro allenamenti sono un caso di scuola: era la nascita del rock&roll tennis in un ambiente di parrucconi. Al rogo i vecchi manuali: botte, corse, ritmo forsennato. Altro che i gesti bianchi di Stefan Edberg. Bollettieri crebbe una nidiata di campioni: come l’altro numero uno Atp Jim Courier, che impugnava la racchetta come una mazza da baseball e la faceva sanguinare.

Frasi motivazionali

Nonostante fosse stato costretto a cedere la proprietà a un colosso della finanza sportiva –  l’Img –  per conclamate lacune nella redazione dei bilanci, l’accademia Bollettieri diventò la Mecca del tennis.

Nick era orgogliosissimo di ricordare la pletora di fuoriclasse portati per mano sulla vetta: Venus e Serena Williams, Monica Seles, Maria Sharapova, Marcelo Rios – tutti ex numero uno – e una miriade di campioni: Krickstein, Arias, Wheaton, Haas, Kournikova, Pierce, Jankovic.

Boris Becker, in pellegrinaggio a Bradenton per ritrovare il suo gioco, condensò in tre parole il suo universo: «Bollettieri non ha mai vinto una partita in vita sua, però le fa vincere a me».

Sempre rosolato dal sole, sempre con gli occhiali inforcati, le maniche tirate su e quel prontuario di frasi motivazionali in cui credeva applicandole a se stesso prima che agli altri –  non crearti scuse, fai spallucce alle critiche altrui, non piangerti addosso, non sederti sui primi successi – pareva non invecchiare mai.

A novant’anni suonati, si alzava ancora all’alba per mezz’ora di fitness «perché se vai in pensione, ci va anche il tuo corpo». Si è spento nella sua magione a tre piani con piscina e un trionfo di piante spettacolari, delle quali era innamorato come lo era della vita: otto mogli «ma non so se saprei nominarle tutte» – del resto, nessuno è perfetto.

E sette figli: il più vecchio è nonno, il più giovane, adottato, fa ancora le elementari. Fino all’ultimo ha seguìto la sua routine, in giro per i campi con la medesima motivazione nell’aiutare il signor Rossi – a patto che potesse permettersi i 900 euro l’ora per la lezione privata – e l’ultima promessa star del tennis. «Stando coi giovani ho capito che, dopo un po’, ti pare di avere la loro età». E di vivere per sempre a colori.

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