Gli stadi pieni di tifosi dopo la pandemia danno speranza al calcio italiano in perenne crisi economica. Ma c’è un risvolto decisamente meno romantico: insieme al pubblico sugli spalti, sono tornati i problemi d’ordine pubblico e di sicurezza. Per la gente che va a seguire le partite e anche per chi le gioca.

La pericolosità degli ultras è di nuovo un tema d’attualità dagli scontri tra i tifosi romanisti e napoletani che, lo scorso 8 gennaio, hanno trasformato l’autostrada del Sole in un campo di battaglia. In attesa di individuare i responsabili, il ministero dell’Interno ha deciso di sospendere per due mesi le trasferte delle due tifoserie, colpendo anche chi con la violenza non c’entra nulla.

Napoletani e romanisti torneranno a viaggiare da metà marzo, ma la loro battaglia prosegue a distanza e preoccupa chi deve garantire la sicurezza negli stadi e fuori. Il 4 febbraio un plotone armato di ultras serbi della Stella Rossa, che si trovava in Italia per seguire due partite dell’Eurolega di basket, ha rubato vari striscioni dello storico gruppo romanista dei Fedayn, fondato negli anni Settanta nel quartiere popolare del Quadraro.

I serbi sapevano dove trovarli e hanno aspettato vicino allo stadio Olimpico – a piazza Mancini – i tifosi che stavano tornando a casa dopo Roma-Empoli e portavano dentro un borsone gli striscioni. Gli ultras della Stella Rossa sono alleati con quelli del Napoli e potrebbe quindi esserci un collegamento con l’episodio dell’8 gennaio. Gli striscioni rubati ai Fedayn sono poi comparsi, capovolti, nella curva della Stella Rossa e sono stati bruciati, come si usa fare nel mondo ultras per rivendicare “il bottino di guerra”. I serbi hanno accompagnato la macabra cerimonia scrivendo su uno striscione: «Hai scelto gli amici sbagliati».

Il raid subìto dai romanisti ha creato parecchia agitazione all’interno dell’intero movimento delle tifoserie organizzate italiane. Tra accuse di tradimenti e promesse di vendetta, i Fedayn non hanno partecipato alla trasferta della Roma a Salisburgo e sono tornati all’Olimpico domenica scorsa per la partita con il Verona. Gli altri gruppi hanno reso omaggio ai Fedayn, rimanendo in silenzio per i primi 75 minuti della gara. Un gesto di rispetto, interrotto solo per cantare ogni tanto i cori più famosi dei Fedayn.

Si temeva una resa dei conti con altri ultras della curva ma, nonostante un’atmosfera tesa, tutto è filato liscio anche nella partita di ritorno contro gli austriaci all’Olimpico. Nel frattempo a Francoforte i tifosi napoletani si sono scontrati con i “rivali” tedeschi dell’Eintracht dentro e fuori lo stadio.

Il rapporto

Al fianco della cronaca l’ultimo rapporto dell’Associazione italiana calciatori ha riportato l’attenzione su un altro lato della stessa medaglia. Anche «i giocatori – si legge nel report – sono tornati a essere oggetto di insulti, minacce e intimidazioni». Nella scorsa stagione, la 2021/22, sono stati segnalati 121 episodi, ma il dato è parziale perché non svela il sommerso: quante volte i calciatori vengono aggrediti, anche fisicamente, e ci passano sopra perché “fa parte del mestiere”? «Tutto questo non è normale» sottolinea invece il sindacato dei calciatori che, da dieci anni, documenta un fenomeno dall’intensità altalenante e con caratteristiche mutevoli.

Inizialmente era considerato più pericoloso giocare nelle regioni del sud, principalmente in Campania, adesso la violenza si sta spostando verso nord. Nella scorsa stagione il 49 per cento degli episodi registrati si sono verificati nel settentrione, la Lombardia è stata la regione più a rischio per i giocatori (26 per cento, più di un quarto dei casi) seguita dalla Campania (13 per cento), dal Veneto e dal Lazio, entrambe al 12 per cento.

Sul triste primato lombardo incide la maggiore concentrazione di squadre di Serie A nella regione, perché la seconda novità emersa è che il 68 per cento delle minacce e delle intimidazioni dei tifosi ha riguardato i calciatori del principale campionato italiano. Ma il problema continua a interessare anche i dilettanti e i campionati giovanili.

I giocatori vengono presi di mira singolarmente (nell’83 per cento dei casi) più che come squadra, quando sono indifesi. Non solo cori e insulti dentro gli stadi, striscioni o scritte sui muri: qualcuno di loro è stato inseguito fin sotto casa, come è accaduto ad esempio a Nicolò Zaniolo e Rick Karsdorp della Roma, accusati rispettivamente di «non voler più vestire la maglia della squadra» e di essere «un traditore» da José Mourinho.

Entrambi hanno presentato alle autorità una denuncia contro ignoti, Zaniolo nel frattempo è andato a giocare a Istanbul, al Galatasaray, mentre Karsdorp è stato perdonato dal suo allenatore («Ho usato un termine esagerato», ha ammesso Mourinho) e dalla Roma, ma ha dovuto dichiarare che il suo avvocato e il sindacato mondiale dei calciatori – che lo avevano difeso – «non stavano parlando in mio nome».

Razzismo e non solo

I motivi principali per cui i calciatori vengono bersagliati dai tifosi sono le loro prestazioni, il razzismo e perché cambiano club o provano a farlo. «Le tue guardie del corpo non ti salveranno la vita, per te è finita» hanno scritto i fiorentini in uno striscione appeso fuori dallo stadio. Il riferimento era a Dusan Vlahovic, che aveva deciso di andare a giocare nella Juventus. Ancor più inquietante quanto è successo lo scorso aprile a Foggia, quando un tifoso è entrato in campo e ha impedito all’attaccante del Catanzaro Pietro Iemmello – che in passato giocava con i pugliesi – di tirare un rigore.

In un caso su tre le minacce e le intimidazioni provengono dai propri tifosi e non da quelli avversari. I calciatori di colore sono il primo bersaglio negli episodi di razzismo (39 per cento), tra ululati e banane che compaiono qua e là ogni tanto negli stadi, ma anche quelli dei Balcani («sei uno zingaro» il coro tipico) o dell’America latina. Nel campionato di Eccellenza è successo pure che a gridare «negro» a un giocatore sia stato un componente della panchina dell’Urbino calcio in una partita giocata a marzo 2022 contro il Grottammare. E gli italiani? Per loro l’insulto più comune è legato alla provenienza dalle regioni meridionali: «Sei un terrone».

C’è poi il capitolo social network, dove chiunque può nascondersi dietro un profilo falso e offendere o spaventare un personaggio pubblico. «Sappiamo dove abiti», «stai attento a tuo figlio» sono le frasi tipiche rivolte ai giocatori. Nelle ultime settimane le minacce virtuali sono arrivate anche ai giudici sportivi che devono decidere sulla penalizzazione in classifica della Juventus: alcuni di loro sarebbero pronti a rinunciare all’incarico.

In Inghilterra i club hanno iniziato a impedire l’ingresso nei loro stadi ai tifosi razzisti e violenti, in Italia c’è ancora tanto lavoro da fare per combattere concretamente il problema. Una sensazione generale di impunità è percepita anche dai vertici dello sport italiano. «Il Daspo non basta più, serve la certezza della pena» hanno detto il ministro per lo Sport e i giovani, Andrea Abodi, e il presidente della Figc Gabriele Gravina, che hanno partecipato alla presentazione del report dell’Aic insieme al presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Paolo Cortis.

Gli scontri dello scorso gennaio hanno generato una riflessione condivisa col Viminale sull’inefficacia del Daspo, ovvero del provvedimento col quale solitamente vengono puniti i tifosi che vengono individuati come i responsabili degli episodi di violenza. Non possono più accedere allo stadio per un determinato periodo e, in alcuni casi, sono obbligati a firmare in un commissariato nei giorni delle partite. Ma ci sono “daspati” che subito dopo aver firmato si mettono comunque in viaggio per partecipare alla trasferta, anche se non potranno (in teoria) entrare allo stadio.

Gli arbitri

Gravina ha sottolineato anche le aggressioni subite dagli arbitri, in netto aumento: durante la stagione in corso sono già stati superati i 150 casi – otto dei quali contro donne – e sono cresciuti i giorni di prognosi complessivi riportati dai direttori di gara feriti. L’ultimo caso si è registrato nel campionato di seconda categoria in Veneto: Mamady Cissé, un giovane arbitro di origine guineana, ha deciso di interrompere la partita tra Bessica e Fossalunga dopo un insulto di discriminazione razziale rivolto dalle tribune.

In Serie B a preoccuparsi invece è il presidente del Brescia, Massimo Cellino: i tifosi gli hanno lanciato delle uova e lo hanno minacciato con una cinghia, accusandolo di gestire male la squadra che rischia di retrocedere in C. Per quanto riguarda gli allenatori, anche per loro gli insulti non mancano, ma c’è un paradosso che li avvantaggia: quando vengono esonerati, l’attenzione si sposta. A prendersi i soldi, ma pure le minacce dei tifosi, rimangono i giocatori.

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