Federica Lombardia ha una malattia genetica che si chiama acondroplasia. La sua passione è la scrittura, che ha portato tra le mura del penitenziario:«Qui mi sento me stessa», dice.
Da Castel Maggiore alla Dozza, in bici sono ventitré minuti e sei chilometri di case basse, pianura e poi campagna. Non è provincia, non è periferia della città. Nessuna identità nel paesaggio. Nessuna architettura verticale. Solo un muro di cinta mostra nella sua altezza la sostanza di una separazione. «Alla Dozza ci devi proprio voler andare», dice Federica Lombardi mentre lega il manubrio a un palo e tira fuori il documento per accedere alla casa circondariale Dozza di Bologna. Federica, alla Dozza, ci vuole proprio andare: «Se salto un martedì, mi mancano i ragazzi, mi manca quello spazio».
Ogni martedì, per due ore, Federica incontra un gruppo di detenuti per un laboratorio di giornalismo all’interno della redazione “Ne Vale La Pena”, un progetto dell’associazione Il Poggeschi per il Carcere: si condivide una rassegna stampa per avere uno sguardo sul mondo fuori ma soprattutto si dà la possibilità alle persone detenute di scrivere articoli che vengono poi pubblicati sul portale di informazione sociale “Bandiera Gialla” e su carta stampata. «In questo modo la persona ristretta – spiega Federica – si trasforma in autore capace di produrre contenuti di valore che vengono letti fuori».
I detenuti che partecipano al progetto sono venti, hanno dai 30 ai 75 anni. «Nei loro pezzi scrivono di vita quotidiana, affettività, salute, giustizia riparativa. Tramite questi articoli noi intercettiamo il loro mondo interiore».
L’esperienza della scrittura in carcere diventa uno strumento per dare forma al proprio sentire: «Raccontano soprattutto rabbia e frustrazione, ma anche voglia di riscatto. Io esco da lì con una stanchezza emotiva ma connessa a una restituzione autentica». Quando entra in carcere, a Federica succede una cosa strana: «Mi sento libera. È uno dei pochi posti in cui sono me stessa, in cui mi sento accettata perché sia io che loro portiamo addosso un’etichetta».
La disabilità come lotta
Federica ha una acondroplasia, una malattia genetica che causa uno sviluppo anomalo dello scheletro. Nel linguaggio comune viene chiamato nanismo. «Ho fatto fatica a guadagnare quello che ho ottenuto. L’altezza viene considerata un misuratore di valore. Quindi ho dovuto dimostrare di non avere un ritardo mentale. Io poi sono anche molto timida, mi piace ascoltare e osservare. La timidezza associata al mio corpo equivaleva a pensare: lei non vale nulla».
Fino all’età di 13 anni, un paio di volte l’anno, Federica veniva ricoverata in ospedale per alcune settimane. «Un ambiente freddo con orari, routine e restrizioni. Al tempo, le visite erano limitate, non avevo il cellulare. Quando sei ricoverata il tempo si ferma e il mondo fuori va avanti senza di te. Quando esci, vedi un mondo a te sconosciuto e corri per metterti in pari». Anche i rapporti si interrompono: «Non tutti hanno voglia di stare con una persona che in quel momento non ha la capacità di sorridere». Federica è stata anche in ospedali lontani da Bologna. La separazione e la reclusione hanno formato il suo modo di stare al mondo. «Ho sempre visto il carcere come l’ospedale. Per questo nel 2017 sono entrata alla Dozza. Sentivo di poter capire quelle esperienze e che loro avrebbero capito la mia». Federica e i detenuti si trovano di fronte barriere non solo architettoniche. «Sono barriere culturali, psicologiche. Barriere dello sguardo. Detenzione e disabilità sono un marchio che segna la nostra diversità in termini di pari opportunità».
Federica lotta contro il pregiudizio fin da quando è piccola. «Ma la mia disabilità mi ha portato anche ad essere empatica e a capire come possiamo comunicare agli altri la nostra condizione per un cambiamento sociale». In carcere fin dal primo momento Federica ha sentito di non essere oggetto di curiosità. Fuori invece i riflettori sono sempre puntati sul suo corpo. Sulla sua statura bassa, gli arti corti, la testa sproporzionata: «In carcere ogni martedì io respiro, mi sento libera di essere quella che sono. Per due ore io e i detenuti possiamo essere noi stessi. Io non sono la mia disabilità, loro non sono il loro reato».
Durante un martedì, Federica ha conosciuto Igli Meta, un ragazzo di origine albanese che scrive racconti sulla propria condizione. Ad esempio, sul rapporto con il tempo che, secondo lui, in carcere non è perso e può essere oro. «Mi ha colpito perché io ho sprecato tanto tempo nella mia vita. Stavo in un angolo ad aspettare, ho sofferto anche di problemi alimentari. Mi sentivo un fallimento. Non riuscivo a fare gli esami all’università. Sono stata prigioniera di me stessa». Federica sente di non poter recuperare quel tempo proprio come accade ai detenuti. Sempre durante un martedì, si è trovata tra le mani il racconto “Campioni mondiali dell’attesa” di un altro ragazzo detenuto, Alex Frongia, che parla della paura di essere dimenticati dal mondo e dai propri affetti: «La stessa paura che avevo da bambina quando ero in ospedale. Questa, secondo me, è la vera condanna: l’oblio emotivo di chi si allontana da noi».
La disabilità per Federica non è pietismo ma lotta: «Ogni giorno combatto per far capire che il mio valore non si misura in centimetri. Se mi vedono in silenzio, mi chiedono se capisco quello che mi stanno dicendo. Se mi deridono, non rispondo per paura di una reazione violenta». Anche Federica come i detenuti ha fatto suo il gesto della scrittura: «La scrittura significa evasione, il luogo dove posso essere me stessa senza temere giudizio. Il foglio bianco è l’unico testimone muto e totalmente neutrale». Scrivere l’aiuta a capire le sue sensazioni e nominarle. «I ragazzi detenuti nella scrittura si sentono liberi, l’unica evasione etica che la legge permette loro. Attraverso le parole sia io che loro possiamo andare per il mondo senza chiedere il permesso a nessuno».
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