In Italia, il legame tra precarietà abitativa e detenzione è una realtà ignorata, ma estremamente problematica. Gli homeless, spesso incarcerati per reati di sopravvivenza, affrontano ulteriori marginalizzazioni a causa dell’impossibilità di accedere a misure alternative per la mancanza di un domicilio stabile: «In questo modo quando esci dalla cella sei doppiamente invisibile», dice Agostina Stano, coordinatrice di Avvocato di strada
Il 31 dicembre Agostina Stano era già tornata a Milano dopo aver passato le feste di Natale in Puglia, dove vive la sua famiglia: dice che il 2025 è appena iniziato, ma c’è tanto lavoro che la aspetta nelle difese d’ufficio.
Stano, oltre ad essere un avvocato di diritto penale e diritto dell'immigrazione, è la coordinatrice della sede milanese di Avvocato di strada (Ads), la più grande e capillare organizzazione sul territorio italiano di assistenza legale pro bono a persone senza fissa dimora. Dal 2001, anno della sua fondazione, Ads ha assistito gratuitamente oltre 45mila persone, con numeri in costante aumento, ogni anno.
Stano spiega che quando si perde la casa, vengono messi a rischio a loro volta tutta una serie di diritti fondamentali, «come un circolo vizioso da cui è quasi impossibile uscire», dice, «e quando, per un qualsiasi motivo, si viene colti in flagranza di reato e si rischia di finire in carcere l'ordine dei problemi si duplica. Lì possiamo intervenire noi».
L’Ads, che si occupa di una vasta gamma di problematiche legali riguardo alle persone senza dimora, tra cui la residenza anagrafica, il diritto di famiglia, l'immigrazione, offre assistenza legale gratuita anche a coloro che finiscono in carcere o rischiano di entrarci, aiutando ad accedere a misure alternative alla detenzione e ai servizi sociali.
In Italia l’ambiente carcerario tende infatti a isolare gravemente la persona, con il rischio che una volta fuori dall’ambiente intramurario ci si ritrovi senza né legami sul territorio né una posizione socio lavorativa, spiega Stano. Quando però la pena detentiva si combina alla precarietà abitativa si scatena una marginalizzazione ancora più grave.
I numeri della homelessness in carcere
Per quanto la homelessness sia un fenomeno in crescita in Italia, con quasi un raddoppio negli ultimi dieci anni delle persone senza dimora (secondo l’ultimo censimento Istat, si contano circa 96mila persone a fronte delle 50mila nel 2014), non esistono stime precise sul numero di persone senza tetto che invece transitano nelle carceri. Eppure, per quanto sottostimata, la presenza in carcere di persone senza domicilio fisso e residenza è una realtà ampia e problematica, denunciano le associazioni.
Mentre infatti nelle carceri italiane il tasso medio di affollamento è del 132,6 per cento rispetto alla capienza, spesso le persone con precarietà abitativa vengono detenute nonostante i reati commessi non pretendano la carcerazione.
«A causa della loro condizione di precarietà sociale ed economica, sono più inclini a commettere crimini “di povertà”: si tratta proprio di reati strumentali al guadagnare o banalmente a trovare da mangiare», spiega Stano. «Solo che in mancanza di misure alternative finisci per scontare le pene in carcere e quando esci sei doppiamente invisibile, perché porti addosso non solo lo stigma del senza dimora ma anche quello dell'ex detenuto», aggiunge.
Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, erano state ipotizzate misure cautelative extracarcerarie per ridurre il rischio di contagio nelle carceri e il ministero della Giustizia aveva così avviato dei progetti di inclusione sociale alternativa per persone senza fissa dimora. Ma mancando risorse per un sistema integrato di supporto abitativo e lavorativo, l’intervento si è risolto in un niente di fatto, spiega Girolamo Daraio, professore di diritto penitenziario presso l’università degli Studi di Salerno.
«Quest'ultimo decreto sicurezza, dell'agosto scorso, ha invece previsto il censimento delle strutture che potrebbero dare ospitalità ai detenuti in esecuzione penale esterna, tra cui i senza dimora. Però si è trattato solo un censimento valutativo, al seguito del quale non è stata programmmata la creazione di alcuna struttura non custodiale di dimora sociale, quando nel frattempo tutte quelle custodiali sono sature», dice Daraio.
Le condizioni psicologiche
Le carceri italiane stanno vivendo una crisi per molti aspetti senza precedenti, tra intasamento cronico, accesso difficoltoso a cure mediche e infrastrutture fatiscenti, denunciano le associazioni del settore. E per chi vive già in condizioni di vulnerabilità, come la precarietà abitativa, il carcere va ad alimentare il disagio psicofisico di questi detenuti.
Antigone, associazione che si occupa di monitoraggio e tutela dei diritti umani nel sistema penale e penitenziario italiano, ha riportato che nel 2024, l’anno che ha segnato il record per numero di suicidi in carcere in Italia, il 22 per cento delle persone che si sono procurate la morte in cella erano proprio senza tetto. Dalle informazioni raccolte da Antigone, infatti, tra i casi di morti volontarie in cella emerge una comune condizione di enorme marginalità. Molte delle persone che si sono tolte la vita presentavano infatti presunte o accertate patologie psichiatriche. Tante erano migranti.
I senza dimora stranieri che finiscono in cella, infatti, affontano barriere linguistiche, difficoltà ad accedere a una difesa adeguata, fino al mancato rinnovo del permesso di soggiorno. «Se entri in carcere senza una residenza oppure ti viene cancellata mentre sei in carcere, non riesci più a rinnovare il documento, poiché generalmente si richiede un indirizzo valido per il rinnovo. Se sei straniero poi il problema si triplica», dice l’avvocato Stano.
Teoricamente, infatti, la legge italiana prevede che il rinnovo del permesso di soggiorno possa essere richiesto anche in carcere, ma nella pratica la procedura, che richiede che il detenuto presenti in autonomia la domanda tramite l'ufficio Matricola o l'ufficio educatori della struttura, è ostacolato dal fatto che queste persone non sono informate su modalità e tempistiche del rinnovo.
Oltre così ad esporre al rischio di irregolarità e quindi espulsione al momento del rilascio, non poter avere documenti di identità e di soggiorno rende impossibile anche l'accesso a programmi di reinserimento sociale e lavorativo, con un aumento dei casi di recidiva rispetto a chi invece usufruisce di misure alternative alla detenzione. «Si tratta di tutta una tela di problemi che si incastrano fra di loro e così la strada, oltre a portarti in carcere, coincide anche con il fine pena», spiega Stano.
Secondo Stano, il problema è anche che gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe), un organo del ministero della Giustizia che si occupa per distretto di corti d'appello dell'esecuzione delle misure alternative, sono gravemente sotto organico.
«Teoricamente l’Uepe rappresenta l’anello di congiunzione fra il tribunale e i servizi sociali», dice Stano, «ma nella pratica va a un rilento talmente aberrante che viene meno la possibilità di reintegrarsi anche a chi magari ne avebbe tutti i criteri. Banalmente a Milano non ti rispondono al telefono oppure aspetti mesi per un appuntamento con l'assistente sociale».
Prospettive future
Chi si occupa di precarità abitativa denuncia la necessità almeno di una revisione normativa che elimini il requisito di un domicilio fisso per l'accesso a misure alternative. Fondamentale sarebbe anche la creazione di strutture dedicate alla dimora sociale. Ads riporta come, ad esempio, si potrebbe compensare questa mancanza ripensando il ruolo dei dormitori pubblici, che attualmente accolgono le persone senza dimora solo durante la notte.
Secondo il professor Daraio, però, il problema è che gli interventi istituzionali spesso ignorano le cause profonde di queste marginalità e il sistema giustizia al momento sembra legittimare la discriminazione verso le persone in condizioni di estrema precarietà abitativa, invece che proteggerle.
«Siamo tutti molto bravi a parlare di diritti, ma l'articolo 2 della Costituzione enuncia che la Repubblica assicura sì diritti inviolabii, ma anche l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà economica, politica e sociale. E fin quando la società civile non si riapproprierà di questo tipo di logica, il problema delle disuguaglianze rimarrà irrisolvibile», conclude Daraio.
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