Macellerie, macelli, impianti di produzione della carne e persino i piatti che arrivano in tavola sempre più ci fanno dimenticare che mangiare carne in realtà significa mangiare un animale. Cominciamo dalla vendita: chi ha più di 50 anni, ma anche meno se viveva in piccoli centri, ricorderà che le macellerie erano piene di animali interi, morti e appesi in ogni angolo del negozio, con spesso il sangue che gocciolava sul pavimento, mentre altri quadrupedi o bipedi penzolavano davanti all'ingresso del negozio, sul marciapiedi, con macchine e passanti che li sfioravano.

Oggi lo definiremmo splatter, ma all’epoca era lo scenario quotidiano di qualsiasi città o paese. Quegli animali appesi erano in realtà la garanzia della qualità della carne che si vendeva. Pian piano le macellerie si sono ripulite, gli animali interi sono scomparsi, prima ridotti in quarti, poi in pezzi sempre più piccoli, fino a far dimenticare totalmente la loro origine.

Le macellerie sono certamente tra i luoghi del cibo che sono cambiati di più, ma in realtà tutti gli ambienti legati al ciclo della carne sono stati rivoluzionati negli ultimi cinquant’anni. I macelli, ad esempio, hanno conosciuto cambiamenti urbanistici che hanno avuto grande impatto sulla vita sociale delle città. Fino all’Ottocento addirittura molte macellazioni erano ancora a vista, non solo in Italia, ma anche a Londra, Parigi e altre grandi città, e figuriamoci nei centri più piccoli. In Francia un decreto di Napoleone del 1810 stabilì che la macellazione dovesse essere gestita dal pubblico e non dal privato e che le porte dei macelli dovessero restare chiuse, il tutto per ragioni igieniche. Fino a oltre la metà del Novecento i macelli restarono luoghi istituzionali e riconoscibili situati in zone molto frequentate. «Ci vediamo davanti al macello» si diceva allo stesso modo di “davanti all’ospedale” o “davanti al municipio”. Era normale che quello stabilimento fosse lì e che gli animali varcassero quella soglia per non uscirne più.

Poi, gradualmente, dagli anni Ottanta, i macelli sono stati spostati nelle periferie, sono ridiventati quasi tutti privati e oggi nessuno sa più dove sono. A entrarci, a parte quelli che ci lavorano, sono a volte giornalisti d’inchiesta e animalisti che vi si introducono con telecamere nascoste per girare filmati che testimoniano quello che succede a bovini, suini e altri animali. In sostanza questi documentari ci mostrano come una verità nascosta qualcosa che dovremmo sapere già ma che evidentemente rimuoviamo volentieri dalle nostre coscienze.

La nuova vita dei macelli

Gli spazi urbani degli ex macelli, per contrasto, sono stati destinati ad attività sociali in cui le persone possano incontrarsi e condividere esperienze, quanto di più lontano quindi dalla vecchia funzione dell’edificio. Nell’ex macello di Roma a Testaccio è nato per esempio Muccassassina, una serie di eventi organizzati dalla comunità Lgbt di Roma. Il logo, con una mucca che impugna una falce per vendicare le compagne uccise, chiarisce ancora meglio il concetto già presente nel nome. Nell’ex macello di Milano, in viale Molise, è prevista invece la realizzazione di una cittadella con scuole professionali, attività sociali e locali con affitti calmierati. Alcuni progetti legati al Pnrr, inoltre, si concentrano sulla riqualificazione degli ex macelli di Arezzo, Varese e altre città.

Ma si tratta di un trend europeo: ad Amburgo l’ex macello è oggi il Cafè Paris, un luogo d’incontro per cittadini e turisti. E in molte altre città europee è successo lo stesso. Gli architetti la definiscono uncomfortable heritage, eredità scomoda. Ex macelli, manicomi e prigioni vengono restituiti alla cittadinanza con funzioni sociali positive per far perdonare il loro passato. In alcuni casi la vecchia origine non viene cancellata, come nell’ex macello di Roma, dove ganci e carrucole sono ancora lì a ricordarci a cosa serviva quell’edificio fino a qualche decennio fa.

I vecchi stabilimenti dell’industria della carne sono stati magistralmente raccontati da Upton Sinclair nel romanzo The Jungle, che metteva in scena le pessime condizioni di lavoro degli operai della Cittadella della carne a Chicago. Più recentemente Alla linea, romanzo/poema di Joseph Ponthus, ci ha mostrato che l’odore di sangue e di morte di un mattatoio è ancora quello; è stato solo nascosto alla maggioranza delle persone, ma non a chi ci lavora.

Un cantante, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, ha invece scritto un romanzo, Lo spacciatore di carne, sugli effetti nefasti che l’atrocità della macellazione può avere sulla mente umana.

Oltre che nei luoghi dell’industria, questa rivoluzione è arrivata anche nei nostri piatti. In passato l’animale arrivava spesso in tavola ancora munito di testa, coda e zampe senza causare scandalo. Oggi è molto raro che questo accada (il pesce meriterebbe un altro discorso). Il filosofo Norbert Elias vedeva in questo processo di ripulitura del piatto un elemento di progresso e civilizzazione dell’essere umano.

Comunque la si pensi, quello a cui abbiamo assistito negli ultimi cinquant’anni è stato un processo di “purificazione” dell’intero ciclo della carne, dalla produzione alla distribuzione al consumo. Come sostengono in molti, tutto questo è avvenuto principalmente per motivi igienici. Ma sociologi e storici ci vedono anche la risposta a un nostro senso di colpa. Con le nuove consapevolezze nei confronti della natura e degli animali, diventa sempre più difficile accettare il fatto che quel cibo che stiamo mangiando, fino a qualche giorno prima, era un animale vivo.

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