Nelle carceri italiane una cella è grande generalmente una decina di metri quadrati. Ci vivono due persone che dormono l’una sopra l’altra. Davanti a loro un televisore, di fianco un armadietto che contiene i pochi vestiti e oggetti personali, se va bene qualche libro, qualche lettera, qualche fotografia a ricordare la vita lasciata fuori. Dietro il letto a castello una finestra con le sbarre e infine un minuscolo stanzino cieco con un lavandino e un gabinetto. La cucina non c’è, eppure la grande maggioranza dei detenuti italiani cucina e mangia in cella – colazione, pranzo e cena – per anni, decenni e talvolta per tutta la vita. A guardar bene, tra il lavandino e il gabinetto si nota un fornello da campeggio. È qui che i due detenuti che abitano la cella cucinano il cibo che mangeranno per pranzo.

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Cibi proibiti

Se è inverno, preferibilmente al nord Italia, uno dei due aprirà la finestra e, dal davanzale esterno che funge da frigo, prenderà gli ingredienti necessari a cucinare. Se è estate il proprio cibo andrà cercato nel frigorifero comune a tutta la sezione, posizionato nel corridoio.

Uno dei due detenuti è fortunato e ha ancora qualche riserva del cibo inviato dalla famiglia in uno dei quattro pacchi consentiti ogni mese, che ogni amministrazione penitenziaria regola a suo modo: formaggio solo tagliato a fettine sottilissime, carne solo senza ossa, alcuni tipi di biscotti banditi.

Nel microcosmo della cella si creano codici e abitudini, ognuno fa qual che gli riesce meglio e contribuisce come può, si suddividono i ruoli e si determina una routine familiare. Il momento del pasto è uno dei pochi in cui i detenuti possono fingere una certa normalità e calore casalinghi, una dimensione domestica che ricordi anche solo vagamente quella persa al momento dell’arresto.

Una volta pronti gli ingredienti, sull’unico tavolino a disposizione – che è scrivania, comodino e tavolo da pranzo insieme – si inizia a preparare il pasto. I coltelli non ci sono, o meglio, sono di plastica, così come le forchette, i cucchiai e i piatti. «Quando per la prima volta ho preso in mano delle posate vere, dopo quindici anni di galera, mi sembravano pesantissime. Dovevo reimparare a maneggiare un coltello, una forchetta, una tazzina da caffè, come un bambino che scopre il mondo», racconta un ex detenuto. In mancanza di veri utensili da cucina, i detenuti si ingegnano. Un manico di scopa diventa il mattarello per stirare la pasta, la grattugia si ricava da una scatoletta di tonno il cui coperchio viene bucherellato con le forbicine delle unghie, le lattine di birra, tagliate e arrotolate, si prestano a creare i gusci di pasta per i cannoli siciliani, la panna viene montata in una bottiglia di plastica, il pan di Spagna si taglia con un filo, la pizza si cucina usando due padelle. Per tagliare si usano di nuovo i versatili coperchi delle scatolette di tonno, oppure si sfila una vite dalla cerniera dell’armadio e la si affila: «Finché non te la trovano le guardie e ti fanno un rapporto, che significa un mese e mezzo di galera in più».

Sulla costruzione di qualcosa che assomigli a un forno ci sono varie versioni. I detenuti di lunga data raccontano che un tempo si costruiva ricoprendo uno sgabello con la stagnola dei pacchetti di sigarette, che si posizionava sopra il fornello da campeggio a creare una cappa. Dentro si cucina ogni genere di piatto: dalla pasta al forno alle torte. Ognuno contribuisce con i piatti tipici della propria tradizione regionale. Oggi si usano le teglie di stagnola che si possono compare allo spaccio della galera: il cosiddetto sopravvitto, previsto dall’articolo 9 dell’Ordinamento penitenziario.

La spesa non è per tutti

Piero Cruciatti / LaPresse

La cucina carceraria fatta di escamotage e inventiva riguarda infatti solo i detenuti che possono permettersi di emanciparsi dal vitto garantito dalla galera, facendo la spesa settimanale. Lo spesino – una figura presente in ogni sezione – passa a ritirare gli ordini dei detenuti, che scelgono gli alimenti da acquistare da una lista in carta intestata al ministero della Giustizia, attingendo il denaro dal proprio libretto carcerario. Nonostante la legge preveda che i prezzi dei generi alimentari non debbano essere superiori a quelli dei supermercati vicini alla struttura, in moltissime carceri si registra un sovrapprezzo non indifferente. Mangiare ciò che si vuole, cucinandolo come si può, in galera è costoso, e chi non ha una famiglia che alimenti il libretto o non riesce a ottenere un lavoro – i detenuti cosiddetti lavoranti sono circa il 25 per cento della popolazione carceraria – deve rassegnarsi al cibo insoddisfacente della cosiddetta “casanza”.

«Il cibo che passa il carcere è una forma di tortura», racconta un detenuto, «non solo non basta a sfamare, ma è di qualità bassissima, monotono, insapore e degradante». Minestrine annacquate d’inverno e d’estate, wurstel e uova, una fettina di carne ogni tanto, purè di patate, qualche verdura insapore, pane vecchio, spesso duro o cotto male. Molti detenuti lamentano mal di stomaco continuo e carenze alimentari. «Capitava spesso di ricevere carne o pesce maleodoranti, dall’aspetto terribile. Per fortuna le detenute che lavoravano in cucina ci avvertivano di non mangiare perché quel cibo era arrivato scaduto già alla cucina», testimonia Lunina Casarotti, ex detenuta e oggi attivista, che ricorda come a nulla valessero le proteste.

Sebbene sulla carta le cucine carcerarie abbiano dei menù settimanali che passano al vaglio di un medico, la realtà, salvo poche eccezioni, è che danno quello che possono, cucinato come possono. La monotonia accomuna la “casanza” di tutte le galere. Un detenuto racconta di essere stato trasferito da Spoleto a Civitavecchia ed essersi stupito di vedere dei kiwi, dal momento che l’unica frutta che arrivava al carcere di Spoleto erano mele (di terza qualità, sottolinea). Gli venne spiegato che si sarebbe stufato presto: a Civitavecchia c’erano solo kiwi, per mesi, anni, decenni. Nessuno li mangiava più, il frutto era diventato nauseante.

Come mai il cibo che dovrebbe essere garantito alle persone ristrette è insufficiente e di pessima qualità? Non solo perché le cucine devono sfamare centinaia, quando non migliaia di persone alla volta. I motivi sono molti.

Il business della fame

In primo luogo, le ditte appaltatrici che si occupano del vitto hanno anche la gestione del sopravvitto – lo spaccio da cui i detenuti possono comprare ciò che desiderano a prezzi spesso maggiorati. Ciò significa che affamare o malnutrire il detenuto equivale a spingerlo a spendere per una spesa decente. Un business molto lucroso a cui nessuno può opporsi, dal momento che vige la regola del monopolio e del prezzo unico. Ma il vero problema è a monte. La gara d’appalto per il vitto parte da una cifra di cinque euro e 70, ma poiché vince l’appalto chi offre il massimo ribasso, la cifra che le carceri italiane hanno a disposizione per l’alimentazione giornaliera di un detenuto non supera i tre euro e 90, nei quali deve rientrare il costo di colazione, pranzo e cena. Il paragone con altre forme di ristorazione collettiva è impietoso. Il paziente ospedaliero, che così spesso compatiamo per le minestrine a cui è condannato, mangia con 13 euro e 50 al giorno: quasi quattro volte quello che si spende per sfamare le circa 60mila persone ristrette nei penitenziari italiani, che, occorre ricordare, viene pagato in gran parte dai detenuti stessi, ai quali è chiesta una quota di mantenimento che ammonta a circa 85 euro al mese, detratti dallo stipendio per chi lavora, o da pagare a fine pena per chi invece non ha un impiego durante il periodo di detenzione.

Seconda pena

Nell’ordinamento penitenziario è esplicitamente dichiarato che ai detenuti «deve essere assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima». Ma la legge viene tradita quotidianamente, condannando i detenuti a una pena ulteriore che passa dal corpo. L’unica possibilità per restituire all’alimentazione la sua dignità di funzione biologica e culturale fondamentale, è arrangiarsi.

Se si entra in carcere all’ora di pranzo capita di sentire qualche buon profumo provenire dalle celle. Olio, aglio e peperoncino, frittura di pesce, sugo di pomodoro. Si ha per un breve momento la sensazione di trovarsi in qualche vicolo di un borgo d’Italia. Il cibo in prigione rivela qualcosa di importante: nonostante venga cucinato e mangiato nella stessa stanza in cui si dorme e si va in bagno, nonostante il lavandino per lavare le verdure sia lo stesso nel quale ci si lavano i denti, nonostante il fastidio dei coltelli di plastica e degli utensili costruiti alla bell’e meglio, mangiare per vivere e non per sopravvivere continua a essere una manifestazione rilevante di dignità, un momento di tregua e piacere, un rito culturale, un aiuto a scandire le monotone giornate, un pretesto per familiarizzare e combattere il supplizio a cui la galera condanna ogni giorno.


L’articolo pubblicato fa parte di una lunga inchiesta che Domani sta conducendo sulle carceri italiane. Nei mesi scorsi è iniziata una nuova sottoscrizione per finanziare il lavoro di dei giornalisti freelance. Tutto è cominciato il 21 luglio 2020 quando una cinquantina di eroici abbonati “sulla fiducia” si sono riuniti su Zoom per giudicare nove progetti e scegliere quelli da proporre per il crowdfunding. A un anno e mezzo dal primo esperimento, che è stato un successo, ci siamo rivolti nuovamente a voi che leggete Domani per chiedere di sostenere il lavoro di approfondimento di alcuni giornalisti che hanno deciso di scommettere sul nostro giornale (e sui suoi lettori), come noi abbiamo deciso di scommettere sulla loro bravura. Le tre inchieste che vi proponiamo sono: “Carcere, inferno quotidiano”, “Geografia dello sfruttamento dei lavoratori” e “La violenza nella chiesa italiana”. Per ogni euro versato dai lettori, Domani ne aggiunge un altro fino al raggiungimento dell’obiettivo.

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