La singolare umanità che, dal 1948 abitò gli alloggi dismessi del villaggio operaio dell’E42 (prima della guerra accoglieva le maestranze che costruirono l’EUR) nell’Agro Laurentino, si riteneva fortunata: si trattava degli esuli provenienti dalla Venezia Giulia, regione ceduta alla Jugoslavia come prezzo della disfatta bellica. Uno tra i primi a giungervi fu Fausto Pecorari, capo della resistenza triestina e sopravvissuto al lager di Buchenwald.

Insieme a lui raggiunsero l’allora remoto sito diversi esuli che avevano trovato un miserabile rifugio negli scantinati della stazione Termini e, successivamente, altri profughi provenienti da tutta l’Istria, da Zara e dalle isole di Cherso e Lussino.

L’enclave gastronomica

I padiglioni operai e le prime palazzine sorte sulla via Laurentina in aperta campagna, tra la città militare della Cecchignola e la Basilica di San Paolo fuori le mura, sembrarono così delle regge al confronto dei campi profughi, sparsi in tutt’Italia, nei quali la maggior parte degli esuli viveva in condizioni deplorevoli. Si formò così nell’agro romano una enclave giuliano-dalmata che usava il dialetto veneto come lingua ufficiale; la comune parlata vernacolare, le tradizioni religiose, insieme alla pubblicazione di periodici, mantenevano viva la memoria, così come le usanze culinarie.

Anche i negozi di alimentari erano gestiti da esuli: la macelleria e gli alimentari dai fratelli Vatta, provenienti da Pola, la pescheria dal signor Miligi di Fiume, il bar Zara dal signor Guanti. I due fruttivendoli Guerrino e Severino Zoia venivano da Volosca mentre Ernesta Bazzarini, che a Pola era titolare di una bella pasticceria, gestiva il bar Italia.

Incontro tra tre culture

Nelle case le massaie riproponevano, tra mille ristrettezze economiche, le usanze culinarie delle terre d’origine, semplici ed essenziali. Ritengo che la cucina sia l’ambito dove la singolare identità istriana, frutto di un riuscito e secolare incontro di elementi veneziani, slavi e austriaci, abbia trovato la sua migliore espressione. I pasti dei giorni feriali erano sobri e nei primi piatti il riso aveva la meglio sulla pasta: riso e fagioli, riso con i cavoli e i “risi e bisi”, cotti in inverno con i piselli secchi che divenivano una crema.

La domenica il riso veniva cotto nel brodo e, a Natale, risotto con i calamari. Un piatto molto comune presso gli istriani dell’entroterra e della costa era la “jota”, composto da fagioli, patate, “capuzi garbi” (crauti), farina, olio, aglio e alloro. I crauti cotti con la luganega, costituivano una vera ghiottoneria e, poiché erano all’epoca irreperibili a Roma, il signor Severino Zoia se li faceva mandare da Trieste; un anno gli capitò di venderne 60 barili da 40 kg l’uno. Una grande concorrente dei maccheroni era la polenta, che doveva risultare molto densa e soda sulla spianatoia. Ricordo le cene con polenta e latte, o col burro e formaggio, mentre un vero manicaretto, servito in rare circostanze, era la polenta con il “brodéto”, la zuppa di pesce, il cui ingrediente principale era costituito dallo scorfano. Le rarissime volte in cui mia madre acquistava gli scampi, li cucinava alla “bùsara”, cioè adagiandoli nel battuto di olio, prezzemolo, poco aglio e cipolla, ma senza la conserva di pomodoro e facendoli bollire piano con un po’ di vino bianco, sale e pepe.

Un piatto semplicissimo, ma reso squisito dalla freschezza e genuinità del prodotto, che lei, nata nell’Isola di Lussino, acquistava solo se ancora vivo. Pesci decisamente più economici come la sardina o lo sgombro venivano marinati: le ghiotte “sardéle in savòr”. In realtà tutto il pesce blu di piccole o medie dimensioni si prestava alla marinatura, che veniva fatta friggendo il pesce e versandovi sopra le cipolle tritate finissime e cotte nello stesso olio della frittura. L’aceto e il rosmarino completavano la preparazione, che doveva rimanere a riposo per un giorno.

Il piatto della domenica

Il baccalà in umido con le patate, accompagnato dalla verza, profumava la cucina in inverno, mentre il pezzo forte era il “baccalà mantegà” (mantecato) che si mangiava solo alla viglia di Natale.

Generalmente il piatto della domenica era il brodo di carne, in cui di regola si cuoceva il riso, ma che risultava sopraffino quando si aggiungevano i gustosi e delicati gnocchetti di “gries” (semolino), che si squagliavano in bocca. Il consumo della carne sia nell’Istria interna che sulla costa era costituito da agnelli e capretti, le cui tenere carni avevano il sapore della salvia e del finocchio selvatico impregnati di salsedine e, benché le massaie a Pasqua facessero del loro meglio, quei sapori risultavano irraggiungibili.

Il menù dei dolci

Nei dolci la contaminazione tra culture e usanze diverse si manifestava in modo evidente. Dal Veneto veniva la “rosada”, una crema leggera e soda come un budino che si dava ai convalescenti, così come i “parpagnàchi”, biscotti secchi i cui ingredienti venivano modificati a seconda delle provenienze delle cuoche. Lo strudel di mele, chiamato anche “strùcolo de pomi” veniva infornato a forma di mezzaluna, secondo l’usanza viennese, nata, sembra, per festeggiare la vittoria sui Turchi nel 1683.

Il segreto per ottenere un ottimo strudel era riempire l’involucro di pasta sfoglia con una buona quantità di mele renette, insieme a zucchero, pinoli, uvetta appassita nel rhum, buccia di limone grattugiata e pangrattato cotto nel burro fuso. I “cròstoli” (frappe, galani, ecc.), preparati e fritti a forma di fiocco, erano graditi non solo nel periodo di Carnevale, ma anche in occasioni di compleanni e anniversari. A Natale facevano il loro ingresso dolci importanti come la “putìzza” e il “prèsniz”, di origine slava e triestina, ricchi di ingredienti dalla complessa lavorazione. Il primo consisteva in un impasto molto ricco, composto da farina, burro, zucchero, uova, lievito, scorza di limone e rhum, che racchiudeva al suo interno un ripieno di noci macinate, zucchero, miele, cioccolato, scorza di limone, rhum e latte. Anche il prèsniz era un dolce farcito ma di pasta sfoglia, con tutti i tipi di frutta secca macinata, miele, cioccolato, canditi e pinoli. La sfoglia andava arrotolata con attenzione e messa in forno a mo’ di mezzaluna. 

Solo mani sapienti e particolarmente esperte sapevano impastare il delizioso “kugluf”. Su tutti i dolci, però, svettavano le “frìtole”. Si trattava di frittelle semplicissime, composte da farina acqua, zucchero, un po’ di rhum o grappa e pinoli e uvetta a piacere, poca cosa davvero rispetto agli altri dolci. Tuttavia, proprio sulla loro buona riuscita, si misurava la destrezza delle cuoche, le quali, a proprio gusto e secondo le ricette dei luoghi di provenienza potevano apporre qualche modifica segreta, tranne il lievito. Le frìtole si impastavano esclusivamente la mattina del 24 dicembre e ciò richiedeva un notevole impegno, affidato spesso agli uomini di casa. Una volta gettato l’impasto nell’olio bollente, doveva uscirne una frittella gonfia e soffice.

La preparazione delle frìtole era un vero e proprio rituale famigliare, così come il loro assaggio di casa in casa.  A Pasqua il dolce per eccellenza era la “pinza”, una focaccia dolce e soffice, lungamente lievitata, sulla cui sommità si incideva una croce prima di venire infornata. Ai bambini si regalavano le “tìtole”, fatte con lo stesso impasto a forma di treccia chiusa con un uovo sodo colorato. Una menzione speciale spetta infine ai “kifeléti” e agli gnocchi farciti con la susina o con la marmellata, entrambi preparati in modo eccellente da mia Madre: fritti e salati i primi, lessati e rosolati nel burro e pangrattato i secondi, erano la gioia di noi bambini. È il caso di dire che la memoria si è tramandata anche mangiando!

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