(Rac)contare i femminicidi è il titolo del panel che accende il dibattito tra i partecipanti alla seconda giornata del Domani delle donne, lo spazio di dialogo e incontro sul potere e la rappresentazione femminile aperto dal nostro giornale alla Camera di Commercio di Roma, il 6 e il 7 novembre.

«Un titolo che abbiamo scelto per mettere in luce due aspetti. Quello della narrazione sui femminicidi – che coinvolge sia i media, sia le aule di tribunale – e che implica una presa in carico di responsabilità. Ma anche quello dell’importanza di contare i femminicidi, come atto politico e di cura», spiega Emanuela Del Frate, giornalista di Domani, che modera il panel, prima di lasciare il microfono a Donata Columbro, giornalista, divulgatrice, esperta di dati: «Sono contenta di vedere che il linguaggio dei dati stia diventando d’uso comune. Ma nel caso della violenza di genere c’è una particolarità: si tratta di un fenomeno sottostimato perché i dati amministrativi che abbiamo a disposizione (denunce, referti medici), fotografano solo una parte della realtà, quella di chi decide di indicare l’esistenza di abusi», chiarisce Columbro prima di evidenziare come l’altro dato impossibile da non vedere sia quello sui femminicidi, fondamentale da portare all’attenzione anche per far emergere tutte le forme che partecipano alla spirale di violenza, ma che nella banca dati del ministero dell’Interno non c’è.

«C’è, in qualche modo, la dichiarazione di non usare la parola femminicidio perché si presta a interpretazioni. Concetto assolutamente vero. Ed è proprio per questo che decidere se usare il termine, e con quali criteri, è un atto politico. Quello che fanno le autorità è decidere cosa gli interessa contare oppure no. Per andare oltre, quindi, è fondamentale che rimanga il lavoro dal basso», rimarca l’esperta di dati che nel suo libro, Perché contare i femminicidi è un atto politico, raccoglie le storie di persone che contano i femmincidi e lo fanno i diversi modi, dando spazio non solo ai numeri ma anche alle vicende.

Contare i femminicidi

Proprio come fa l’Osservatorio nazionale Femminicidi, Lesbicidi, Transicidi di Non una di meno, che come spiega Federica Rosin dell’Osservatorio, tenta –  in quanto spazio di lotta e di presa di parola –  di contrastare la narrazione dominante sulla violenza di genere segnata da scale di valori che portano «alcuni femminicidi ad avere un grande clamore, di solito di giovani donne, bianche, perlopiù borghesi. Mentre tutte le altre persone spariscono. Così abbiamo cominciato a contare femminicidi per non essere le storie raccontate da qualcun altro. Dalle istituzioni non vengono raccontate le uccisioni per violenza patriarcale che noi cerchiamo di contare, come quelle dei giovani uomini trans, o i suicidi di giovani uomini non etero. Le persone che muoiono per violenza patriarcale sono tante e per lo più invisibilizzate», chiarisce Rosin dopo aver offerto un ampio quadro della situazione attuale.

L’ingiustizia del diritto

Sul palco della Sala del Tempio di Vibia Sabina e Adriano insieme a loro, nel cuore di Roma, ci sono anche l’avvocata di Differenza donna, Ilaria Boiano, specializzata in difesa diritti donne e Paola Di Nicola Travaglini, una delle magistrate più esperte nella lotta alla violenza di genere, «la giudice, la prima ad aver fatto la battaglia per essere declinata al femminile», sottolinea Del Frate.

Per Boiano come per Di Nicola Travaglini è fondamentale essere consapevoli che anche gli ordinamenti giuridici sono espressioni della società in cui prendono forma e in cui vivono, per questo è impossibile leggerli fuori contesto. «Il diritto non è senza Storia. Dalla genealogia del diritto nel nostro ordinamento si capisce che le donne non hanno potuto contribuire a definirlo anche se poi le norme giuridiche hanno un effetto sulle loro vite», puntualizza Boiano prima di aggiungere che «una delle motivazioni per cui ancora oggi noi fatichiamo a usare le parole giuste quando parliamo di violenza di genere è che i codici hanno autorizzato la violenza domestica e di genere – accadeva fino al 1981 con il diritto d’onore ad esempio, è ieri – e non possiamo dimenticarlo nel dibattito pubblico spesso ridotto a tifoseria», prosegue ancora l’avvocata per evidenziare, però, anche come la produzione del significato dei termini che oggi utilizziamo sia stata possibile proprio grazie alle donne che «hanno fatto la scelta di varcare la soglia del commissariati, entrare nelle aule di tribunale, prendere parola e raccontare quello che hanno vissuto».

Anche secondo Paola Di Nicola Travaglini «l’aula di giustizia non è diversa da altri spazi di confronto e di dibattito. Perché chi ci entra, da testimone, vittima, difensore, partecipa alla cultura del contesto sociale in cui vive. Tutto questo avviene in modo inconsapevole. Quindi, il linguaggio, – anche quello usato nelle sentenze dei tribunali – è il primo portatore della cultura: se il contesto del nostro Paese è sessista, l’aula di giustizia non potrà che ereditare questo tipo di racconto», chiarisce: «L’unico strumento per fermare questa deformazione dei fatti è la competenza, la formazione, la professionalità, conoscenza degli stereotipi giudiziari».

Il reato di femminicidio

«Nominare è potere», ricorda Del Frate, che nella seconda parte del panel, chiede alle speaker di focalizzare il dibattito sulla necessità di avere una definizione univoca di femminicidio, almeno nelle aule di tribunale, uno dei passaggi dovrebbe avvenire quando la legge che introduce il nuovo reato di femminicidio sarà approvata. Per tutte il testo approvato fino a oggi al Senato, che a breve passerà alla Camera, rappresenta un passo in avanti nell’offrire strumenti linguistici necessari per parlare della violenza di genere. «Per capire che il femminicidio è un delitto di potere, come quelli di mafia», incalza Di Nicola Travaglini. Ma non basta.

«Il diritto penale rimane uno strumento da utilizzare per tutelare i diritti fondamentali, quelli scritti nella Costituzione. Ma deve agire in quello che Marcela Lagarde intendeva per femminicidio: l’uccisione come ultimo atto di un sistema di potere che opprime. In questo contesto, quindi, ci colpisce che a fronte di una norma politicamente importante, poi si precludano forme di discorsi pubblici sull’educazione all’affettività e si renda fragile la società su tutte le misure di supporto sociale, fatti che rendono il percosso di fuoriuscita dalla violenza ancor più incerto», aggiunge, infatti Boiano, poco prima della conclusione del panel, in cui le protagoniste, negli ultimi minuti a disposizione hanno sottolineato l’importanza dell’educazione sesso-affettiva in classe ma anche la pericolosità del discorso sul consenso informato che distorce il rapporto scuola-famiglia e indebolisce il ruolo dell’istruzione pubblica nella società.

«Il tema è complessissimo. Abbiamo fatto un excursus su tanti aspetti oggi insieme, ma vi invito ad approfondire i lavori delle nostre ospiti», dice Del Frate al termine di un dibattito ricco di spunti di riflessione per sottolineare come l’intreccio e l’ampiezza dei temi trattati necessitino di continui spazi di presa di parola.

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