Secondo la scrittrice singalese-italiana: «La donna razzializzata è uno spettro perché non esiste nel paese di origine e in quello di arrivo». Per la studiosa invece «c’è un femminismo bianco che unisce alcuni movimenti dal basso con il governo Meloni». Un femminismo di potere che non aiuta chi è marginalizzato.
Che cosa significa occupare e resistere in uno spazio pubblico, come quello italiano, governato dalla destra di Giorgia Meloni? È stato questo il tema al centro del panel “(R)esistere nello spazio pubblico”, dedicato al razzismo e all’antirazzismo in Italia a “Il Domani delle donne”, la due giorni di dialoghi sul potere e la rappresentazione femminile in scena al Tempio di Vibia Sabina e Adriano, a Roma.
Un incontro moderato da Youssef Hassan Holgado a cui hanno partecipato Marie Moïse, attivista e docente di studi di genere e decoloniali alla John Cabot University e Nadeesha Uyangoda, scrittrice singalese-italiana che di recente ha pubblicato il suo ultimo libro “Acqua sporca” edito da Einaudi.
L’introduzione del panel ha ricordato la missione della nave Mediterranea di questi giorni, seguita dalla nostra giornalista Marika Ikonomu, che ha tratto in salvo 92 persone partite dalle coste libiche. Il panel ha poi trattato dell’esistenza politica di corpi non bianchi e occidentali nel Nord globale, oltre che a questioni identitarie e narrazione decoloniale.
Come si esiste in uno spazio pubblico
Per resistere in qualsiasi contesto socio-culturale si deve prima avere la possibilità di esistere. E ad alcune persone questa possibilità viene negata: per provenienza, colore della pelle o per entrambe. Per Uyangoda occupare uno spazio pubblico in ITalia «significa esistere e non esistere perché sei cittadino ma non si ha accesso ad una piena rappresentazione pubblica».
E lo dimostra l’acquisizione della cittadinanza che rimane una concessione, perché legata a vincoli burocratici ed economici, piuttosto che un riconoscimento culturale. «Non puoi esistere nello spazio pubblico se sei povero o se non sei abbastanza ricco», risponde, invece, Moïse che denuncia una nuova tipologia di spazio. «Lo spazio pubblico è costruito per essere ostile a chi quel potere lo può esercitare. Non solo spazio-tempo ma spazio-ostile». Per la studiosa però, c’è una soluzione e a che fare con le pratiche che si conducono in quegli spazi. «Le relazioni affettive sono realmente l’unico antidoto al potere e al dominio».
La lotta attraverso l’uso dei corpi
Negli ultimi mesi migliaia di persone sono scese in piazza per manifestare in solidarietà con Gaza. I corpi sono diventati uno strumento sempre più utilizzato per manifestare il dissenso e non solo nelle lotte femministe, ma anche in quelle contro il cambiamento climatico (basta pensare ad Extinction Rebellion e Ultima generazione). Per ultimo lo abbiamo visto con il grande movimento che si è riunito attorno alla Global Sumud Flotilla. Da qui la questione? L’utilizzo del corpo fa più rumore della voce? E poi, ci sono corpi che nella lotta contano più degli altri? Per Moïse la differenza tra corpi c’è ed è innegabile. «L’esercizio del potere è una questione di corpi. Quando parliamo di femminicidi vediamo piazze che si riempiono quando a morire è una donna bianca di buona famiglia ma non scatta il medesimo sentire quando a perdere la vita è una una vita nera». Anche in questo caso non bisogna assecondare l’agire pratico ma accompagnarlo ad uno studio che lo codifichi.
«Bisogna fare epistemologia della resistenza: produrre riflessioni a partire da quello che le resistenze ci dicono». Nonostante le differenze, la mobilitazione per la Flotilla ha avuto un impatto decisivo e ha dato una speranza a migliaia di persone che cercano rappresentanza nel discorso pubblico. «Quello che ha attivato la Flottilla è stata una nuova speranza che chiunque da qui potesse fare qualcosa a livello globale. Più che le categorie morali, servono le categorie della pedagogia decoloniale. Non significa insegnare a fare il giusto ma si tratta di fare esercizio quotidiano di solidarietà e speranza. E questo la Global ce lo ha insegnato».
Decolonizzare la narrazione
Partendo da una riflessione della famosa scrittrice palestinese Susan Abulhawa, autrice di “Ogni mattina a Jenine”, Moïse e Uyangoda hanno ragionato sull’importanza di decolonizzare la narrazione. «Il modo di abitare la letterature è sempre liminale», ha detto Uyangoda. «Il mio sguardo verso lo Sri Lanka è diverso da quello di una persona che è cresciuta lì, perché è occidentale e mi rendo conto dei miei limiti». L’Occidente ha sempre raccontato con la propria lingua le geografie altrui, distorcendolo. «Solo detronizzare la narrazione farà sì che lo spazio torni se stesso», ha concluso la scrittrice.
La letteratura, insieme all’industria cinematografica contribuisce alla distorsione della narrazione pubblica dell’alterità, in tutte le sue forme. Negandola completamente in alcuni casi. Questo cosa può comportare a livello identitario? «Chi decide con quali parole si possa narrare l’identità?», si domanda Moïse.
Prima del mondo culturale è la politica che determina la narrazione. «Esiste in questo paese una politica femminista bianca di cui nessuna si rivendica tale ma di cui fanno parte, laddove esiste una prospettiva di liberazione che fa rima con emancipazione». Emancipazione che libera da una condizione senza rimuoverla.
«Queste condizioni vengono poi scaricate su altre donne – prosegue – vi è una continuità di femminismo bianco tra alcuni movimenti dal basso e quello del governo Meloni. L’ultimo è fatto di poche nomine famigliari la cui idea di libertà è basata sull’affermazione individuale e di carriera, sottraendosi al lavoro di cura».
Indifferenza è violenza
Il problema del razzismo sistemico non si manifesta solo nella violenza, ma anche nell’indifferenza. Lo diceva Martin Luther King, in una lettera dalla prigione di Birmingham, nella quale denunciava come il bianco moderato facesse più paura dell’uomo del Klu Klux Klan.
Da qui la domanda. Oggi il razzismo sistemico in Italia si manifesta di più tramite la violenza o l’indifferenza? Per Uyangoda le due questioni «vanno di pari passo: l’indifferenza è una questione di violenza». Il corpo razzializzato è utile solo al profitto. «La donna razzializzata è uno spettro perché non esiste sia nel paese di origine che in quello di arrivo – continua la scrittrice – «questo corpo, di cui sfruttiamo ogni fibra, non è neanche un corpo è proprio uno spettro». E nell’indifferenza, questa dinamica si alimenta.
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