«Per diverso tempo i lavoratori si sono misurati la temperatura usando tutti lo stesso termometro», racconta Simone Grisa, funzionario della Fiom-Cgil della provincia di Bergamo. Non riesce a trattenere la propria incredulità mentre ricorda quel che accadeva in alcune aziende della sua zona durante i giorni più caotici della prima ondata della pandemia. «I delegati delle fabbriche venivano da me per chiedermi se anche questo semplice gesto non costituisse un rischio per la salute degli operai».

Abbonati a Domani

Da marzo dell’anno scorso Grisa raccoglie le segnalazioni dei lavoratori metalmeccanici della bergamasca e quella dei termometri non è l’unica violazione che gli è stata segnalata. «Quando è iniziata la pandemia in alcune fabbriche gli operai hanno utilizzato la stessa mascherina per otto ore. Nei casi peggiori anche una o due settimane senza cambiarla mai – dice Grisa - Stiamo parlando di operai e non di impiegati»

A più di un anno dall’adozione del protocollo nazionale sulla sicurezza anticovid nei luoghi di lavoro – sottoscritto dalle associazioni datoriali, dai sindacati e dal governo Conte il 24 aprile 2020 – l’Italia non ha raccolto dati sui contagi né nelle aziende né nelle fabbriche. Non sappiamo quanto i luoghi di lavoro siano sicuri e non sappiamo quante persone si sono ammalate frequentandoli. Il numero di violazioni delle regole di sicurezza commesso è destinato a rimanere un mistero e probabilmente soltanto una piccola parte dei responsabili sarà sanzionata.

Contagi in azienda

La provincia di Bergamo non è solo l’area più martoriata dal Coronavirus è anche una zona fortemente  industrializzata con 80mila imprese attive e centinaia di migliaia di lavoratori impiegati nell’indotto metalmeccanico tra i più importanti d’Italia. Se, da un lato, il Coronavirus ha alzato il livello di attenzione sulla sicurezza sul lavoro, tante volte disattesa nel nostro paese, dall’altro, è stato motivo di confronti anche piuttosto duri tra gli operai e le aziende. La distribuzione di mascherine e altri dispositivi di protezione, le regole sul distanziamento e l’areazione degli ambienti di lavoro sono stati ottenuti spesso in seguito a trattative, a volte anche faticose, con le aziende.

«L’acciaieria è un luogo severo», dice Giovanni Bianchini, responsabile lavoro e sicurezza della Cgil che lavora in un’acciaieria di Dalmine, in provincia di Bergamo. Tra fornaci e macchinari è difficile mantenere il distanziamento fisico, fa molto caldo e gli operai devono indossare un tipo di mascherina, la ffp2 senza valvola, che spesso rende il lavoro faticoso. «Nei primi mesi dell’emergenza – continua – abbiamo avuto difficoltà anche nel trovare i dispositivi di protezione più adatti per questo tipo di lavoro. Abbiamo aspettato molto tempo prima che l’azienda sanitaria visitasse la fabbrica, quando abbiamo sollevato la questione del microclima e dell’areazione degli ambienti di lavoro».

Bianchini ricorda anche che è stato grazie agli operai se tra febbraio e marzo 2020 l’azienda ha sospeso la produzione. «Eppure, era chiaro che potevamo contagiarci tutti. Gli ospedali erano al collasso e non avevamo la minima idea di come riorganizzare il lavoro e garantire la sicurezza».

Bianchini dice che le frizioni con l’azienda non si sono mai fermate dallo scoppio della pandemia, e continuano ancora oggi: «Pochi giorni fa abbiamo scioperato 20 ore per chiedere all’azienda i tamponi rapidi molto utili per tracciare il contagio tra gli operai». Spiega anche che c’è un altro motivo di discussione con l’azienda: riguarda l’uso delle cabine dei carriponte nell’acciaieria. «Nel protocollo aziendale avevamo stabilito che potesse salire un operaio soltanto, perché lo spazio è molto stretto. L’azienda ora ha cambiato idea. Nelle cabine vuole due operai, questo significa però far saltare il distanziamento fisico. Non importa se indossano la mascherina perché sono costretti a stare molto vicino per diverse ore». Gli operai hanno chiesto così l’intervento delle autorità sanitarie. «Due mesi fa ho inviato una mail, stiamo ancora aspettando che i tecnici del dipartimento di salute e prevenzione vengano qui, in fabbrica».

In occasione dell’aggiornamento del protocollo nazionale il 6 aprile scorso  – poche le novità apportate riguardanti essenzialmente le trasferte e la gestione dei lavoratori sintomatici – i sindacati hanno ammesso ciò che non ha funzionato, anche se hanno scritto nel comunicato congiunto che «il protocollo è stato uno strumento che si è dimostrato prezioso per reggere la sfida del virus».

I problemi, secondo i sindacati, sono almeno tre: l’assenza di un monitoraggio, la mancanza di una rete di vigilanza sulla sua applicazione, e le difficoltà delle piccole e medie imprese ad adottarlo e a confrontarsi con i rappresentanti dei lavoratori. L’accordo è servito di certo a lanciare un forte messaggio politico all’opinione pubblica nella fase più difficile dell’emergenza sanitaria. Sin dall’inizio però è mancata una programmazione su come riorganizzare la sicurezza col Covid-19 all’interno delle aziende.

La seconda ondata

«Durante la prima ondata, da un giorno a un altro, venivi a sapere che un operaio si era ammalato di Covid-19 perché rimaneva a casa o perché ti dicevano che era stato ricoverato in ospedale», dice Grisa, il delegato Fiom di Bergamo: «Oggi c’è maggiore consapevolezza. In un certo senso, rispetto all’anno scorso, il livello di sicurezza nelle fabbriche è migliorato. Le regole sono diventate poco a poco più chiare, e sono state adattate a ciascuna azienda con il confronto, anche se – ammette – c’è stato un calo di attenzione generalizzato per esempio durante l’estate scorsa».

Il timore di una nuova esplosione dei contagi nella provincia di Bergamo si è riaffacciato tra fine gennaio e metà febbraio scorso. «Rispetto alla prima ondata e alla ripresa produttiva, quando abbiamo registrato casi isolati nelle aziende, relativi ai contatti più stretti, abbiamo avuto alcune imprese con la quasi totalità dei dipendenti contagiati», dice Angelo Chiari, responsabile Cgil della sicurezza sul lavoro.

Il problema, secondo Chiari, sono le trasferte dei lavoratori. «La maggior parte non durano oltre le 120 ore, cinque giorni in totale». In tutti questi casi i lavoratori non sono obbligati a fare né il tampone né la quarantena. «Ho ricevuto segnalazioni da parte di un delegato per un collega rientrato dal Brasile, quando sul sito del ministero degli Esteri, era vietato lasciare il paese per tornare in Italia».

Trascorrono dieci giorni dalla sua denuncia di Chiari e con un comunicato la Cgil-Fp di Bergamo raccoglie le testimonianze di infermieri e assistenti sanitari del dipartimento di prevenzione dell’Ats: «Il contact tracing non è più gestibile». A smorzare la denuncia di Chiari ci pensa però il segretario generale della Cgil Lombardia Elena Lattuada che riferisce peraltro di non avere dettagli sui focolai nelle aziende bergamasche. Secondo Lattuada, «26 persone contagiate su 120 dipendenti non è un numero elevato. Non abbiamo bisogno di allarmismi».

Controlli assenti

Il controllo sul rispetto delle norme anti Covid «è una tipologia di attività che non abbiamo mai fatto prima», racconta un funzionario dell’Istituto Nazionale del Lavoro che preferisce rimanere anonimo. «Generalmente ci occupiamo di verificare che i rapporti di lavoro siano regolari. Perciò tra i diversi uffici ci siamo trovati tutti un po' impreparati, non siamo stati neppure adeguatamente formati e informati. Ora il nostro lavoro si svolge tutto in base a una checklist – che cambia da settore a settore – e che c’è stata fornita per email qualche tempo dopo l’entrata in vigore del protocollo».

«Le ispezioni – continua – iniziate verso la fine di maggio e gli inizi di giugno 2020 sono andate avanti allo sbaraglio, il personale è rimasto sempre lo stesso». Dopo le riaperture nel giugno 2020, anche le Ats della provincia di Bergamo hanno dovuto fare i conti con la carenza di personale. Il direttore del dipartimento di prevenzione, la dottoressa Giuseppina Zottola, racconta come sia stato inizialmente costituito un “nucleo Covid” con operatori sanitari, ispettori territoriali, e forze dell’ordine.

Nel pieno dell’emergenza medici e assistenti sanitari dei dipartimenti di prevenzione vengono però impegnati in altre attività. E così i controlli iniziano solo tre mesi dopo l’adozione del protocollo nazionale anticontagio. I dati sono comunque frammentari: su 80mila imprese l’Ats ne ha controllate circa 2mila. Su 4mila controlli, appena il 15 per cento ha riguardato il rispetto del protocollo nazionale anticontagio.

Anche nella provincia di Modena, dove ci sono 60mila imprese attive, i controlli sanitari sono andati avanti a singhiozzo. Secondo un recente studio, tra maggio e novembre 2020 sono state controllate 374 aziende e circa 18mila lavoratori in tutta la provincia. «Quasi sempre i controlli avvengono su segnalazione dei lavoratori e dei rappresentanti sindacali», spiega la dottoressa Silvia Goldoni che ha contribuito allo studio come responsabile scientifico dello Spsal dell’Ausl Area Nord di Modena. «Solo una parte è stata scelta dall’azienda sanitaria. Ci siamo concentrati sui settori della logistica e della lavorazione delle carni a seguito dello sviluppo dei focolai».

Nello studio, che serve da guida alle imprese locali per ridurre la trasmissione del virus per via aerea e tramite aerosol, si affronta proprio il tema dei contagi nei macelli dove il rischio di trasmissione è molto elevato. «È un settore che non ha mai sospeso la produzione e in cui la manodopera straniera è diffusa tramite le cooperative; le condizioni abitative e gli spostamenti casa lavoro sono precari per chi ci lavora, e sono inadeguate per contenere il virus», dice Goldoni.

Le aziende della macellazione e preparazione delle carni hanno attirato le preoccupazioni degli epidemiologi fin dall’inizio della pandemia. A luglio 2020 il British Medical Journal ha definito queste realtà «il nuovo fronte nella pandemia di Covid-19». Prossimità fisica, basse temperature, umidità elevata, aerosol e consumo cospicuo di acqua sono le cause principali, ma non le uniche, dello sviluppo dei focolai. Come racconta la dottoressa Zottola, anche nella provincia di Bergamo ci sono stati alcuni controlli nei macelli a partire da agosto 2020: 598 in totale su 447 attività di diversi settori produttivi ispezionati.

I dubbi sulla sicurezza nelle Pmi

Ma le preoccupazioni maggiori sono rivolte al mondo della piccola e media imprenditoria. È lì che secondo i sindacati la situazione è probabilmente sfuggita di mano

«Nelle fabbriche più piccole, quelle che hanno tra i 100 e i 200 operai, il protocollo aziendale è un bel ricordo – dice Grisa – Chi riesce a controllare se viene applicato oppure no?». Il motivo è molto semplice: «O hai una rappresentante sindacale all’interno di un’azienda o altrimenti non trapela nulla».

I dubbi del sindacato sulla sicurezza anticovid nelle piccole e medie imprese si scontrano con le parole di Maurizio Casasco, presidente nazionale di Confapi, una delle principali associazioni della piccola e media imprenditoria. «Il virus non si annida nelle fabbriche – sostiene Casasco con convinzione – È la società civile a portare il Covid-19 nelle realtà produttive. Lo ripeto dall’adozione del protocollo nazionale del 24 aprile 2020».

Come se nelle aziende non ci fossero donne, uomini, giovani e meno giovani, comunque esposti al rischio del contagio anche sul luogo di lavoro. Un paradosso. O un modo forse per sottrarsi alla domanda sul livello di sicurezza nelle centinaia di migliaia di imprese di piccole e medie dimensioni che, come denunciato dal sindacato, sfuggono ai controlli e dove i lavoratori non possono contare nemmeno sulla “voce” dei delegati. Casasco sposta così l’attenzione sulle vaccinazioni nelle fabbriche. «Abbiamo poco tempo per sfuggire alle varianti», conclude.  

Il monitoraggio dell’Inail non basta

Ma al di là dei controlli sanitari, quel che è mancato in tutti questi mesi, è un monitoraggio solido e affidabile che aiutasse a capire cosa stava accadendo nei luoghi di lavoro nelle aziende e nelle fabbriche e quanto il virus stesse realmente colpendo nei luoghi di lavoro.  

Ogni mese l’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) pubblica i numeri sulle denunce d’infortunio per Covid-19. Dall’inizio della pandemia ha monitorato oltre 165mila casi di contagio tra i lavoratori. Il 60 per cento delle infezioni è emerso negli ospedali, nelle case di riposo e di cura, nelle cliniche e nei policlinici universitari. In un anno e mezzo di pandemia, nel settore manifatturiero invece sono stati denunciati circa il 3 per cento di tutti gli infortuni per Covid-19. Le realtà imprenditoriali scivolano così dietro alla pubblica amministrazione dove, stando ai dati dell’Inail, sono emersi circa il 10 per cento del totale dei contagi denunciati.

«Per me l’Inail non è in grado di fare una fotografia di quello che succede col Covid-19 né nelle aziende né nelle fabbriche perché non è sul territorio - dice Grisa – Nella bergamasca, per esempio, in tanti non hanno dichiarato l’infortunio». Rispondendo a una richiesta di informazioni di Domani, Inail ha ammesso che «c’è una sproporzione tra il personale disponibile e il numero delle aziende da ispezionare».

Quelli dell’Inail sono numeri parziali «perché non rappresentano l’intera platea di lavoratori», spiega Gianluca De Angelis, ricercatore sociale che collabora anche con la Cgil. I dati sugli infortuni Covid-19 si riferiscono solo ai lavoratori dipendenti tralasciando autonomi, parasubordinati e irregolari che non hanno nessuna tutela e non possono denunciare l’infortunio.

«Peraltro l’Inail non conosce il numero esatto di addetti di una fabbrica o di un’azienda», dice il rappresentante nazionale lavoro e sicurezza della Cgil, Sebastiano Calleri. Non ha una banca dati con nome, cognome, età e sesso dei lavoratori. Queste sono informazioni che l’Inail acquisisce solo se riceve una denuncia di infortunio.

Mentre negli ospedali, nella pubblica amministrazione e nei servizi in genere a contatto col pubblico è più facile denunciare – i lavoratori sono più esposti al rischio di contagio e per chiedere l’infortunio basta il certificato del medico – nelle fabbriche il datore di lavoro invece può evadere la denuncia.

«Nelle piccole e medie imprese questo è ancor più vero perché i datori di lavoro non vogliono sostenerne i costi», dice De Angelis. Se c’è un lavoratore infortunato, l’Inail dovrebbe, assieme all’autorità giudiziaria, ispezionare la fabbrica per capire come è avvenuto il contagio. «Dopo l’accertamento l’impresa è costretta a modificare il documento di valutazione del rischio che obbliga l’imprenditore a riorganizzazione il lavoro in azienda», conclude il ricercatore.  

Non sono giorni facili per gli operai delle fabbriche. Tra i lavoratori non è mai mancata la voglia di lavorare, nonostante la costante paura di contagiarsi. Quando è stato concluso l’accordo non si sono programmati i controlli ne aumentate le risorse per eseguirne in numero sufficiente. Come hanno denunciato gli stessi sindacati, questo ha consentito, soprattutto alle piccole e medie imprese, che rappresentano però l’80 per cento del tessuto produttivo italiano, di disattendere più facilmente il protocollo.

La situazione è ancora peggiore quando parliamo di dati. Quelli di cui disponiamo sono informazioni a metà, e non sapremo mai con certezza quante persone sono state colpite dal virus nei luoghi di lavoro. In una situazione di emergenza sanitaria eccezionale, la responsabilità di garantire la sicurezza di tutti i lavoratori, compresa quella degli operai delle grandi come delle piccole aziende, si è ridotto tutto a un unico atto politico: l'accordo del 24 aprile. Un atto apparentemente ben costruito, ma purtroppo insufficiente.

Abbonati a Domani

© Riproduzione riservata