Oggi ci manca il respiro. Forse non ce ne rendiamo conto, ma non è la pandemia che ci opprime: è la mancanza di prospettive ideali e di futuro, è l’angustia in cui giorno per giorno viviamo, in cui, soprattutto, la politica oggi vive e costringe noi tutti a vivere, almeno per la parte civica delle nostre anime, quando non per vera sofferenza sociale, con la sua vista “più corta di una spanna”.

Una scuola che riaprirà fra un mese e ancora non si sa come, le varianti del virus che corrono indisturbate e nessuno fra i decisori pubblici che stia riorganizzando il tracciamento, la tremenda confusione che sembra vigere nella discussione sui vaccini, dove il problema serio della vaccinazione degli adolescenti (a proposito di vista corta: possiamo decidere in funzione del nostro oggi di imporre un rischio sul loro domani?) viene confuso con quello non serio se l’obbligo di green pass per accedere ai luoghi affollati sia o no il prodromo di una svolta autoritaria.

Allerta massima

E c’è chi nella maggioranza di governo fomenta le piazze dei no pass e no-vax che, come ha sottolineato Maurizio Ferraris con il suo solito lampo di humour freddo (Il Foglio, 29 luglio), sono anche i no tax, e questa volta la sua è proprio una lampante verità. Ma se poi anche i filosofi ci si mettono, a ridurre la visuale e a toglierci il respiro, attirando sui social ondate di imbecillità (direbbe Ferraris), ecco, verrebbe da dire con le nostre nonne, non c’è più religione. Vale a dire, nel caso specifico, non c’è proprio più senso critico.

Il caso è quello dell’allerta sulla natura autoritaria, discriminatoria e liberticida dell’obbligo di green pass, apparso a firma di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari il 26 luglio sul sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici: che però qui è solo un pretesto per una riflessione possibile su una radice dell’angustia morale, civile e politica in cui siamo immersi – e forse non solo in Italia: che la sofistica, e non da oggi, si è abusivamente appropriata del nome di “filosofia” – e da allora ha avuto un successo popolare mai conosciuto nei millenni.

Cacciari ha già risposto allo sconcerto con un articolo sulla Stampa (28 luglio) in cui traduce l’accusa in domande: e le domande non solo sono sempre legittime, sono ciò su cui le democrazie idealmente si fondano. A parte qualche dubbio sui numeri che ci offre senza confronto di altri numeri, ad esempio la percentuale dei decessi fra i non vaccinati, e la distribuzione di vaccinati e non vaccinati nella popolazione. Perché così induce a pensare che, se tra i morti quasi la metà erano vaccinati, vaccinarsi serva a poco. E a parte un dubbio ancora più acuto sulla deriva «verso una società del sorvegliare e punire» che minaccerebbe un paese in cui sta per passare una riforma della giustizia che a detta di molti famosi magistrati e studiosi indurrebbe a cancellare processo, pena e reato per un numero impressionante di condannati soltanto in primo grado.

Quanto ad Agamben, un ritratto brillantissimo ne ha già fatto su Domani (29 luglio) Raffaele Alberto Ventura, anche se nella mia ingenuità fatico a capire, se non in chiave ironica, come abbia potuto la sua fama mondiale farne anche «una delle esperienze intellettuali più esaltanti della contemporaneità». E vengo alla mia tesi, che la popolarità mondiale di Giorgio Agamben esemplifica bene – ma che si fonda anche sull’evidenza di mezzo secolo di dominio incontrastato, nell’Europa continentale, di quella koinè di pensiero, detto “critica della modernità”, in cui spiccano i maestri dei nostri autori. Una koiné unificata dall’irrisione nei confronti tanto della ragione logica che di quella pratica, cioè dei valori epistemici, morali e politici che hanno ispirato i due versanti illuministici della modernità: la scienza e la democrazia.

I maestri

In verità furono i francesi, al tempo di Alexandre Kojève (che, si dice, salutava nella figura di Stalin lo spirito del mondo a cavallo, come Hegel aveva fatto con Napoleone), di Jean Beaufret, di Jean-Paul Sartre, a sdoganare Heidegger, dopo la sua Lettera sull’umanesimo: un’esplosione di vaticinii sul destino dell’occidente, che sradica e reifica, e sulle sue potenze demoniche, la ragione calcolante, tecnica e la macchinazione (Machenschaft), di cui fra l’altro nei Quaderni Neri i rappresentanti sono gli ebrei, questi sradicati e sradicatori.

Del resto per gli eredi di Marx era proprio l’Illuminismo che «conduce ai campi di sterminio» (Adorno-Horkheimer, Dialettica dell’Illuminismo). Non sono un’invenzione di Diego Fusaro, i Quaderni rosso-bruni che tanti fan attirano sui social, dove il loro inventore ha appena – mi dicono – annunciato la fondazione di un’università dedicata al pensiero di Michel Foucault. Che è, insieme al costituzionalista di Hitler, Carl Schmitt, il principale maestro di Giorgio Agamben.

Il quale ne ha ricavato, già a partire da Homo Sacer – Il potere sovrano e la nuda vita (1995) – la fusione di un decisionismo estremo di tipo schmittiano con una accentuazione di indeterminatezza, tutta foucaultiana, del “potere”: che non viene identificato soltanto con quello politico, né con altri, legittimi o illegittimi, bensì con qualcosa di diffuso e inafferrabile, che si manifesta nell’esercizio di qualunque pratica, ad esempio il sapere delle varie professioni, e ha come dominio di esercizio la “nuda vita”.

Una paradigmatica manifestazione di questo «potere sulla nuda vita» sono per Agamben i campi di sterminio nazista, della cui biopolitica, appunto, non solo guerre, stragi, migrazioni e altri eventi geopolitici contemporanei, a prescindere dalle loro cause prossime, sarebbero ulteriori manifestazioni: ma lo sarebbe qualunque società democratica le cui istituzioni ad esempio regolamentino l’esercizio della medicina, dato che «l’integrazione fra medicina e politica (…) è uno dei caratteri essenziali della biopolitica moderna», e il momento in cui questa integrazione «comincia ad assumere la sua forma compiuta» è «il Reich nazionalsocialista».

Così, qui l’inferenza non è dalla modernità al nazismo, ma dal nazismo alla contemporaneità, anzi specificamente quella delle società con costituzioni democratiche, soprattutto se hanno costituzionalizzato i diritti umani: quale forma più palese di potere sulla nuda vita che proteggere il diritto alla vita, o alla salute, o alla procreazione assistita. Tanto più che «sovrano è chi decide dello stato d’eccezione» e, ne conclude Agamben, lo stato d’eccezione è la normalità stessa della sovranità, perciò quando aspetti il tuo turno di visita alla Asl metti pure in conto che dall’altra parte possa esserci un medico con una dose di Morphium-Scopolamina da iniettarti con la scusa del vaccino, e dietro il sorriso dell’infermiera scintilli il ghigno del dottor Mengele.

Filosofi vs sofisti

Volevo fornire al lettore un agile criterio della differenza fra filosofia e sofistica, ma dopo questo riassunto mi pare po’ pedantesco. Comunque eccolo, per quel che vale. La differenza è quella fra chi accetta, e chi non accetta, il dono dei vincoli dati al suo pensiero e al suo volere. Vincoli all’arbitrio della nostra libertà (a proposito di leggi liberticide!). Vincoli riconoscibili alla nostra ragione: l’esercizio faticoso di questo riconoscimento, progressivo e mai esauribile, critico e autocritico, e soprattutto affamato di evidenza e ragioni, a tutti e a ciascuno accessibili, per quello che si ipotizza vero, è filosofia, come Socrate l’inventò.

I vincoli sono quelli della logica e dell’etica: anzi, è la scoperta del vincolo inscindibile di logica ed etica che segna la nascita del pensiero filosofico, con l’impegno a cercare ragioni per i propri giudizi. Essere liberi e autonomi significa anche questo: possiamo certo infrangere le leggi che ci eravamo dati, ma è meglio verificare se ciò che prescrivono è giusto. Se è vero o no che lo sia.

Se il solo argomento contro la sofistica fosse quello che Donatella Di Cesare oppone ad Agamben e Cacciari – «l’idea che siamo liberi e autonomi è ingenua» e cela istinti identitari (L’Espresso, 27 luglio) – ecco, la battaglia del filosofo contro il sofista sarebbe proprio perduta.

 

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