Il 21 febbraio 2020 in Italia scoprivamo il primo malato di Covid-19: era l’inizio dell’incubo. Che cosa abbiamo capito in questi due anni? Abbiamo commesso molti errori, e sarebbe meglio non ripeterli mai più. A fine dicembre 2019, l’Organizzazione mondiale della sanità avvisa che a Wuhan, in Cina, è scoppiata un’epidemia provocata da un nuovo coronavirus che causa una polmonite mortale, e il contagio potrebbe diffondersi ovunque.

Tutti gli stati del mondo si mettono in allerta. Il primo caso di Covid viene identificato negli Stati Uniti il 19 gennaio, in Germania il 27, in Inghilterra il 29 gennaio 2020. Quei paesi mettono immediatamente i pazienti positivi in isolamento, però decidono di non adottare misure più stringenti, come i controlli a tappeto o la chiusura delle frontiere: in pratica lasciano correre l’epidemia.

Successivamente, questi stati saranno costretti ad adottare misure drastiche di contenimento, come ripetuti e lunghi lockdown, e ciò nonostante oggi contano molte decine di migliaia di morti.

Il modello coreano

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Altri paesi del mondo, come la Cina, la Corea del Sud e l’Australia adottano subito la politica del test and trace and isolate, ovvero testa e traccia e isola.

In Corea del Sud, per esempio, a gennaio 2020 il governo decide di testare, cioè di sottoporre a tampone molecolare, tutti gli individui che mostrano i sintomi del Covid - cioè tosse e raffreddore - o che hanno avuto contatti con la Cina, di tracciare i loro contatti, e di isolare coloro che risultavano positivi.

Per farlo, il governo chiede alle fabbriche del paese di costruire subito 600 nuovi thermal cycler (le speciali macchine che effettuano l’esame dei tamponi), e alle aziende chimiche del paese di preparare le sostanze chimiche necessarie per eseguirli; nel giro di pochi giorni aprono 600 nuovi laboratori dove fare i test.

Risultato: immediatamente individuano il cosiddetto “paziente 31”, un malato di Covid sessantunenne che appartiene alla sezione di Daegu di una setta religiosa che ha avuto contatti con altri membri della sua setta, cinesi di Wuhan. Poiché gli adepti del culto si ritrovano spesso in cerimonie segrete di massa a cui partecipano migliaia di persone, il paziente 31 è riuscito a infettare almeno 400 altri adepti, quasi tutti di Daegu.

Immediatamente, il governo della Corea del Sud decide di chiudere asili, ospizi e centri di comunità, e proibisce ogni riunione di massa e politica, ma niente lockdown. Adottando questa politica, i coreani sono riusciti sempre a interrompere le catene di contagio all’origine, quando i casi sono pochi, e le persone da testare al massimo poche migliaia: così hanno tenuto i numeri dei contagi sempre bassi, e in due anni hanno avuto pochissimi morti,fino ad oggi, circa 7.500.

L’Italia è andata molto peggio

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E l’Italia? Spiace dirlo, ma noi siamo stati fra i paesi peggiori al mondo. Lo spiega bene la storia di Mattia Maestri, il primo positivo al coronavirus ufficiale d’Italia.

Attorno al 15 febbraio 2020, il signor Maestri, che vive a Codogno in provincia di Lodi, si ammala, ha la febbre alta e una bruttissima tosse, e va al pronto soccorso. Lo visitano e gli dicono che è solo un’influenza e può andare a casa. Ma a casa peggiora, e il giorno dopo chiama l’ambulanza. «Sto male, non respiro», dice.

Lo ricoverano in mezzo ad anziani e malati, non in isolamento, e contagia tutti. Qualche giorno dopo una giovane anestesista, Annalisa Malara sospetta che sia Covid e fa eseguire un tampone, che sarebbe proibito perché Mattia non è stato in Cina. Allora si pensava, sbagliando, che solo chi viaggiava da qual paese potesse essere fonte di contagio. Glielo fanno e risulta positivo: è il 21 febbraio 2020. Siamo in ritardo di oltre un mese rispetto ai primi casi segnalati nel resto del mondo.

Il caso di Codogno

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Ma Mattia ha contagiato qualcuno? Bisogna indagare. La regione Lombardia invia alcuni medici che fanno il tampone a tutti quelli entrati in contatto con lui - i suoi familiari, gli amici - trovano che sono quasi tutti positivi, come si aspettavano, e li isolano.

Poi però, per controllo, fanno i tamponi anche ad altri abitanti di Codogno non entrati in contatto con Mattia, e scoprono che anche molti di loro sono positivi. Si spaventano. Codogno viene dichiarata zona rossa.

La regione convoca altri medici ed epidemiologi, che allargano le ricerche, vanno in giro per tutta la Lombardia, e scoprono positivi ovunque. Gli scienziati sono presi dal panico: il virus sta già dilagando! In pochi giorni, trovano 5.830 individui contagiati dal coronavirus sparsi ovunque, da Milano, a Bergamo, alla Valseriana, ma il loro sospetto è che siano molti di più.

Avvisano i vertici della regione: «C’è un’epidemia massiccia in corso». Quei dati significano due cose: che Mattia Maestri non era il paziente zero, e che il coronavirus era entrato in Italia già da tanto ed aveva avuto molto tempo per diffondersi.

Ma da quando? Gli scienziati indagano, e così, di contagio in contagio, scoprono che il primo paziente positivo al coronavirus era presente in Italia il primo gennaio 2020. Le conseguenze sono terribili. Il coronavirus segue leggi matematiche semplicissime: la variante di Wuhan aveva un R0 uguale a due e un tempo di raddoppio di circa tre giorni. Cioè, ogni infetto contagiava in media due altri individui, e questi casi raddoppiavano circa ogni tre giorni, se non si faceva nulla.

Era la fine di marzo. Se il Sars-CoV-2 era presente in Italia dal primo gennaio, aveva avuto 60 giorni circa per moltiplicarsi e diffondersi, e visto che si raddoppiava ogni tre giorni aveva potuto farlo per circa venti generazioni. Quindi, a fine marzo ci doveva essere circa un milione di persone contagiate dal coronavirus in giro, anche se in quel momento ufficialmente sapevamo solo che in tutta Italia i positivi al virus erano pochi, Mattia Maestri e un altro centinaio di persone, e che il Covid aveva fatto una sola vittima, Adriano Trevisan, un anziano che viveva a Vò Euganeo, in Veneto.

“Non ci hanno ascoltato”

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Gli epidemiologi lombardi terrorizzati lanciano l’allarme, e informano i vertici della regione, che non gli danno retta. In un articolo che poi hanno pubblicato come per dire “noi sapevamo ma non ci hanno ascoltato”, dal titolo Le prima fasi dell’epidemia di Covid in Lombardia, scrivono: «L’epidemia in Italia è iniziata molto prima del 20 febbraio 2020. Al momento del rilevamento del primo caso di Covid-19 l’epidemia si era già diffusa ampiamente nella maggior parte dei comuni della Lombardia».

«Il potenziale di trasmissione del Covid-19 è molto elevato e il numero di casi critici può diventare in gran parte insostenibile per il sistema sanitario in un orizzonte di tempo molto breve». Il 2 marzo, i vertici della regione Lombardia e il primo ministro Giuseppe Conte vengono avvisati: bisogna chiudere tutta la Lombardia.

Non fanno nulla. Aspettano altri sei giorni. Arriviamo all’8 marzo. Aspettare un giorno in più in quel momento non è come aspettare un giorno in più all’inizio del contagio. In sei giorni, il virus raddoppia altre due volte, da un milione a due milioni, e poi da due a quattro milioni di infetti.

Intanto, migliaia di persone cominciano ad affollare gli ospedali del nord, e ora si è capito che non hanno una brutta influenza ma il Covid. La gente comincia a morire. Quindi, l’8 marzo sapevamo che c’erano in giro circa quattro milioni di infetti: chiudere tutto era necessario, anzi, l’unica soluzione possibile. La sera del 9 marzo, Conte annuncia: «Da oggi l’Italia sarà zona protetta». Inizia il lockdown.

Che cosa dovremmo aver imparato e quali errori non dovremmo più commettere in futuro? Innanzitutto, che quando si affronta una pandemia bisogna agire in anticipo e non in ritardo come abbiamo fatto noi, perché se aspetti che l’epidemia esploda poi ti resta solo una cosa da fare: adottare misure drastiche come il lockdown. Ma questo non ti impedisce di dover contare, alla fine, migliaia e migliaia di morti.

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