Diciassette giorni di inerzia hanno provocato migliaia di morti in Val Seriana, provincia di Bergamo. Nei comuni di Nembro e di Alzano Lombardo, soprattutto, come emerso dalla super consulenza in mano agli inquirenti bergamaschi, che indagano da due anni e mezzo sulla gestione della prima fase della pandemia in Lombardia e sulla mancata zona rossa in Val Seriana.

Quasi venti giorni senza che le autorità regionali e il governo decidessero di confinare il territorio. Eppure una comunicazione via mail, partita il 26 febbraio 2020 da Bergamo e diretta ai vertici della sanità regionale, dava conto della dimensione preoccupante raggiunta dai contagi. Mail, letta da Domani, alla quale però non è seguita alcuna decisione drastica da parte della giunta del leghista Attilio Fontana.

L’inchiesta sulla strage di Bergamo è ormai agli sgoccioli e potrebbe essere chiusa entro la fine dell’anno. Al di là delle responsabilità penali, i documenti inediti, letti dal nostro giornale, permettono di ricostruire una verità storica. Tra le carte utili per capire l’impreparazione della regione più industrializzata d’Italia c’è la mail del 26 febbraio.

È una data cruciale, perché due giorni più tardi Fontana scriverà un messaggio di posta elettronica alla protezione civile e alla presidenza del consiglio per chiedere il mantenimento delle misure della settimana precedente, una zona gialla, in pratica. Non ha chiesto il 28 febbraio alcun aggravio delle restrizioni neppure per l’area della Val Seriana. Sebbene le comunicazioni che arrivavano da quei territori fossero peggiori di quelle che avevano portato a confinare in una zona rossa Codogno, il paese della provincia di Lodi dove il 20 febbraio era stato riscontrato il primo caso italiano di malato Covid-19.

La bomba Alzano

La mail del 26 febbraio informa i vertici regionali dei contagi in aumento nell’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo. A scriverla è Carlo Alberto Tersalvi, all’epoca direttore sanitario dell’Agenzia di tutela della salute (Ats) di Bergamo. Gestiva lui il flusso di comunicazione dei dati sui contagi con la regione Lombardia. Le mail le inviava in particolare a Luigi Cajazzo, allora direttore generale della Sanità, il massimo referente per le questioni sanitarie dell’assessore Giulio Gallera e del presidente Fontana.

Tersalvi oggi ricopre lo stesso ruolo in Liguria, nell’Asl di Imperia. Dalla Lombardia è andato via dopo essersi dimesso tra mille polemiche per sospetti sui ritardi nell’invio dei dati. Tersalvi, contattato da Domani, conferma che il numero di nuovi casi Covid veniva inviato in regione Lombardia in tempo reale. Il 26 febbraio il bollettino dal nosocomio di Alzano era più che preoccupante: 10 positivi ricoverati e testati con tamponi, di cui 6 tutti residenti della vicina Nembro, più altri 4 contagi tra gli operatori sanitari e 60 pazienti in isolamento. Che il numero di casi positivi concentrati nel solo comune di Nembro fosse già alto, lo conferma anche l’allora sindaco del paese. Claudio Cancelli avrebbe detto ai pm di Bergamo che alla data del 26 febbraio risultavano «a Nembro 8/9 contagi».

Dati da allerta rossa, anche perché riferiti a un territorio ben delimitato: nella mail si specificava pure che alcuni di questi pazienti positivi erano ricoverati già da dieci giorni. «Io ho riportato quello che dovevo, poi spettava alle autorità regionali prendere le decisioni conseguenti, io sono un soldato, dovevo dare le informazioni e le ho date, poi...», dice Tersalvi. «Quelli erano i primi casi in Lombardia, non le so dire perché le valutazioni di chi doveva governare il sistema regionale siano andate in una certa direzione». Il dirigente che inviava i dati, da quello che oggi conosciamo come l’epicentro della pandemia nella prima fase, ricorda con angoscia lo stato d’animo di quei giorni: «Certo che ero preoccupato con quei dati lì. Il mese di febbraio, marzo, aprile e maggio, sono stati devastanti, anche per la mia persona».

Il flusso di dati viaggiava in tempo reale verso i vertici della giunta Fontana: «Ogni giorno li inviavamo a regione Lombardia», conferma Tersalvi, che è stato sentito come testimone dalla procura di Bergamo: «Sono anche venuti due volte nel mio ufficio per fare copia forense del computer. Non so dare un giudizio sulla gestione, so solo che eravamo su una bomba che è esplosa».

Evidentemente non sono bastati i dati del 26 febbraio a convincere Fontana che chiudere almeno la Val Seriana già in quei giorni fosse la cosa giusta da fare. Perché il 28 febbraio 2020, 48 ore dopo aver saputo del numero crescente di positivi ad Alzano e dei 60 in isolamento, il presidente della regione ha scritto una mail, rivelata da Domani la scorsa settimana, nella quale non esigeva misure più dure, ma la replica della zona gialla già in essere.

La difesa di Fontana e Gallera

Questa mail del 28 febbraio è diventato un caso politico, che ha suscitato la reazione dell’opposizione, con in testa il candidato alla presidenza della regione per il centrosinistra, Pierfrancesco Majorino. Fontana ha accusato Domani di aver omesso un passaggio dell’allegato, fatto non vero: nell’articolo è citato lo studio inviato a corredo del messaggio, in cui peraltro emerge la consapevolezza della regione che di fronte a un R0:2 (indice di contagio) la soglia critica sarebbe stata superata. Sebbene gli scenari fossero apocalittici, con un incremento del contagio del 30 per cento su base giornaliera, decidono di non chiedere la zona rossa.

«Fonti di regione Lombardia», citate da alcune testate dopo l’articolo di Domani, hanno riferito che il presidente Fontana in realtà volesse provvedimenti più duri, ma che nessuno da Roma gli avesse mai risposto: la tesi è che nei primi giorni della pandemia la Lombardia avesse chiesto a Conte di poter istituire autonomamente zone rosse e gialle. La risposta, hanno fatto sapere fonti regionali, sarebbe avvenuta «in videoconferenza» e fu che «si potevano prendere misure solo parziali e provvisorie, senza blocco delle attività produttive» fino al successivo Dpcm.

A difesa delle scelte di Fontana si cita un’altra mail del 23 febbraio inviata al capo della protezione civile, Angelo Borrelli, e rimasta «senza risposta». È una lettera che ha come oggetto «Disposizioni per la regione Lombardia» in cui il direttore generale al Welfare, Cajazzo, chiede alla protezione civile di dare indicazioni su come istituire le zone gialle o rosse.

Nel testo della missiva si legge: «Come da accordi si invia proposta di ordinanza di regione Lombardia», ma in pratica si tratta di una mail interlocutoria. Non è per nulla una accorata richiesta di provvedimenti drastici.

Nelle more

Del resto è Fontana in commissione d’inchiesta regionale a spiegare il senso di quella mail del 23 febbraio: era stata inviata «a commento del decreto-legge nel quale si parlava del termine “nelle more”, una richiesta per consentire a Regione Lombardia di procedere alla determinazione di zone rosse e gialle in base all’andamento epidemiologico. Come sapete il decreto-legge prevede che misure dei presidenti di regione possono essere emanate soltanto nelle more dei Dpcm (ovvero nell’intervallo di tempo tra l’avvio di un iter burocratico-giuridico e la sua conclusione, ndr). In quei giorni “more” non ce ne furono, perché praticamente i Dpcm venivano emanati quotidianamente». Tuttavia, dopo il Dpcm del 23 febbraio 2020, ne è stato emanato un altro il 25 febbraio, poi sono passati cinque giorni prima che il governo emanasse un nuovo decreto, il primo di marzo: la regione, dunque, avrebbe avuto la possibilità di intervenire in quel lasso temporale e questa email del 23 febbraio non è in alcun modo una richiesta di zona rossa, come vorrebbe far intendere la giunta Fontana.

Secondo quanto ricostruito dai consulenti della procura il Dpcm del 23 febbraio 2020 stabilisce che anche regioni e comuni possono in caso di emergenza adottare misure di distanziamento sociale nelle aree in cui risulta positiva almeno una persona. Solo nel comune di Alzano Lombardo all’interno dell’ospedale, il giorno 26 febbraio, erano stati accertati almeno 10 casi Covid. Più altri quattro operatori sanitari positivi e 60 pazienti in isolamento.

Giulio Gallera, contattato da Domani, ha detto: «Nessuno di noi il 23 ha mai chiesto la zona rossa, c’era un solo caso ad Alzano, figurarsi. Neanche per la Lombardia, avevamo così pochi casi nella zona di Codogno, nessuno di noi immaginava di chiuderla». Il 23 no, ma neppure il 26 o il 28 la regione ha cambiato idea nonostante i dati che arrivavano dalla Val Seriana.

 

© Riproduzione riservata