Il trattenimento nei centri per i rimpatri (cpr) non rispetta la riserva assoluta di legge sulla libertà personale prevista dall’articolo 13 della Costituzione, ma non spetta alla Consulta porre rimedio. È il legislatore ad avere «il dovere ineludibile di introdurre una normativa» che assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona trattenuta.

Con la sentenza 96, pubblicata ieri, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate dal giudice di pace di Roma relative ai trattenimenti nel Cpr di Ponte Galeria, luogo di detenzione amministrativa per chi è sul territorio italiano senza un titolo di soggiorno valido. L’unico dei dieci Cpr – undici con quello albanese – ad avere una sezione femminile, con cinque posti.

Il vulnus individuato dalla sentenza riguarda la riserva assoluta di legge, prevista dall’articolo 13 della Costituzione, secondo cui la detenzione è ammessa con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». Per la Corte la normativa – e cioè l’articolo 14 del testo unico sull’immigrazione, la cosiddetta Bossi-Fini – risulta «del tutto inidonea a definire, con sufficiente precisione, quali siano i “modi” della restrizione», «i diritti delle persone trattenute nel periodo – che potrebbe anche essere non breve – in cui sono private della libertà personale». Il governo Meloni infatti ha esteso il trattenimento fino a un massimo di 18 mesi.

Un «assoggettamento fisico all’altrui potere», lo definisce la Consulta, considerando l’incidenza sulla libertà personale. In altre parole, le norme regolamentari e i provvedimenti amministrativi discrezionali, che disciplinano la materia, non forniscono un perimetro di garanzia sui modi di limitazione della libertà personale.

La norma sulle garanzie richiamata dall’articolo 14 non è infatti un atto con forza e valore di legge. Prevedendo poi che le disposizioni che regolano la convivenza all’interno delle strutture, le modalità di erogazione dei servizi e di svolgimento delle visite siano adottate dal prefetto, sentito il questore, c’è il rischio di avere una disciplina difforme tra le varie strutture del territorio nazionale.

Inammissibilità

Il collegio presieduto da Giovanni Amoroso, nonostante le criticità rilevate, ha però dichiarato inammissibili le questioni sollevate, sostenendo di non avere strumenti per colmare l’assenza di una legge che disciplini in modo specifico le modalità del trattenimento. Non ci sono, scrivono i giudici, soluzioni adeguate che permettano di colmare la lacuna, nemmeno nell’ordinamento penitenziario, «dovendo la detenzione amministrativa restare estranea a ogni connotazione di carattere sanzionatorio».

L’unico soggetto che può intervenire è quindi il legislatore, perché la materia «incide sulla libertà personale», ed è chiamato a dettare i «contenuti e modalità» che limitino la «discrezionalità dell’amministrazione», perché il trattenimento «assicuri il rispetto dei diritti fondamentali e della dignità della persona senza discriminazioni».

Deve stabilire quindi le caratteristiche degli edifici e dei locali di soggiorno e pernottamento, la cura dell’igiene personale, l’alimentazione, la permanenza all’aperto, l’erogazione del servizio sanitario, le possibilità di colloquio con difensore e parenti, oltre alle attività di socializzazione. L’intervento è urgente, avverte la Corte, vista la «centralità della libertà personale nel disegno costituzionale».

L’avvocato Gennaro Santoro, che da tempo si occupa della violazione dei diritti nei centri, la definisce una sentenza monito: «Così come accaduto per le Rems, la Corte invita in maniera solenne il legislatore a intervenire».

Una pronuncia che riconosce la violazione di diritti, dice il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, ma che non smantella «un sistema che crea dolore illegalmente. Un passo comunque importante».

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