Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura accusa le autorità di cattiva gestione dei centri, tra maltrattamenti fisici e abuso di medicinali nei confronti dei migranti
I centri di permanenza per il rimpatrio italiani sono un buco nero. Maltrattamenti fisici e uso eccessivo della forza da parte del personale di polizia nei confronti delle persone trattenute. Diffusa somministrazione di psicofarmaci non prescritti per sedare chi si trova rinchiuso nelle strutture di detenzione amministrativa perché privo di un permesso di soggiorno.
Centri che non dovrebbero avere un aspetto carcerario, e invece le loro «sbarre», gli «schermi metallici alle finestre», le «armature rinforzate», i «cortili di passaggio simili a gabbie» li rendono assimilabili a «delle unità di detenzione che ospitano i detenuti in regime speciale».
Oltre alle inchieste giornalistiche pubblicate negli anni e alle testimonianze di chi ha passato mesi rinchiuso dentro a un Cpr, il pietoso stato delle strutture – che il governo Meloni vuole potenziare – è stato documentato in un report del Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa. Le conclusioni a cui arriva l’organismo fanno seguito alla visita di una delegazione in Italia, lo scorso aprile, in quattro Cpr: Milano, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Palazzo San Gervasio (Potenza) e Roma.
I rilievi fatti dal comitato mettono in dubbio anche quello che l’esecutivo definisce «modello Albania». I centri di Shengjin e Gjader, durante la visita degli osservatori del Consiglio d’Europa, erano ancora in costruzione. Ma per il Cpt «le pessime condizioni» di vita nei centri per i rimpatri, l’«assenza di un regime di attività», «l’approccio sproporzionato alla sicurezza», «la qualità variabile dell’assistenza sanitaria», nonché la gestione affidata a operatori privati di queste strutture detentive e la mancanza di trasparenza, «mettono in discussione l’uso stesso di tale modello in Albania».
Per questo, il comitato ha raccomandato alle autorità italiane «di rivedere il funzionamento dell’attuale sistema dei Cpr, per assicurare che questi centri possano garantire» condizioni di vita dignitose e un trattamento rispettoso della loro dignità.
Violenze e psicofarmaci
La maggior parte dei casi di maltrattamento fisico e uso eccessivo della forza da parte di agenti di polizia è relativa alla gestione degli eventi critici, tra cui proteste, atti vandalici o tentativi di fuga. Le carenze sono molteplici per il comitato.
«Assenza di qualsiasi monitoraggio rigoroso e indipendente di tali interventi» e «mancanza di una registrazione accurata delle lesioni subite dai trattenuti o di una valutazione oggettiva sulla loro origine», si legge nel rapporto. Così come la pratica di trasportare cittadini stranieri, verso le strutture, «ammanettati in un veicolo della polizia, senza che venga offerto loro cibo e acqua durante tragitti di diverse ore, dovrebbe essere rivista».
Un’ulteriore prassi considerata critica dagli osservatori è la somministrazione di psicofarmaci non prescritti diluiti in acqua, come documentato nel Cpr di Potenza. Secondo la delegazione, le forze dell’ordine in tenuta antisommossa non sono adeguate a gestire la sicurezza all’interno dei Cpr.
«C’è la necessità», scrive, «di creare un corpo dedicato di agenti di custodia che siano adeguatamente formati sulle problematiche specifiche della sorveglianza delle persone trattenute nei centri di permanenza per migranti, in particolare per quanto riguarda le abilità relazionali e la capacità di riconoscere i sintomi di possibili reazioni da stress».
Condizioni di vita
La prefettura, responsabile legale dei centri, dovrebbe prestare attenzione alla freschezza e alle date di scadenza del cibo precotto somministrato, così come alle modalità di conservazione e ai bisogni alimentari delle persone detenute, sia per questioni culturali sia di salute. Il comitato sottolinea inoltre le criticità relative alle condizioni igienico-sanitarie e, più in generale, all’abbandono dei migranti all’interno dei Cpr con gli enti gestori che investono «solo sforzi minimi per offrire poche attività di natura mirata».
O, ancora, serve migliorare l’assistenza sanitaria, lo screening medico, l’accesso al diritto di difesa, il sistema di certificazione dell’idoneità alla vita in una comunità ristretta va rivisto. E devono essere «adottati protocolli clinici per la prevenzione del suicidio e la gestione degli scioperi della fame».
Di fronte a queste conclusioni il ministero dell’Interno ha attaccato il Consiglio d’Europa sostenendo che sia «un’istituzione estranea all’Unione europea», cercando di minarne la legittimità. Non solo, al Viminale sostengono che il contenuto del rapporto sia basato «su informazioni parziali e incomplete, circostanza ancora una volta ricorrente nei suoi dossier». A ottobre lo stesso organo era stato attaccato dal governo Meloni per aver accusato la polizia di compiere «profilazione razziale».
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