C’è un dato che smonta l’apparato retorico sulla “linea dura” dei rimpatri. In Italia l’espulsione forzata è, nella maggioranza assoluta dei casi, un’operazione annunciata ma non eseguita. Lo certifica il rapporto Rimpatri forzati e pratiche di monitoraggio, frutto della ricerca empirica del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, curato da Giuseppe Campesi, Elisabetta de Robertis e Francesco Oziosi.

Dal 1998 al 2023 l’Italia ha eseguito materialmente solo il 32% dei provvedimenti di espulsione emessi. Tradotto: due persone su tre destinatarie di un ordine di allontanamento restano comunque sul territorio nazionale. Nel primo periodo osservato (1998-2004), il tasso di esecuzione superava il 40%, favorito dalla presenza prevalente di cittadini dell’Europa orientale e dei Balcani, con cui i rapporti diplomatici e i meccanismi di cooperazione agevolavano i rientri.

Dal 2005 in avanti, però, la curva si è inclinata stabilmente verso il basso. Nei sei anni successivi il tasso è sceso sotto il 30%, per poi assestarsi al di sotto del 25% nel decennio più recente. Il quadro è ulteriormente peggiorato con il progressivo cambiamento della composizione dei destinatari: oggi la quota più rilevante riguarda cittadini di paesi nordafricani e subsahariani, spesso provenienti da contesti di instabilità, conflitti, crisi economiche e regimi non collaborativi. E senza la cooperazione diplomatica dei paesi di origine, le operazioni di rimpatrio si bloccano già nella fase preliminare di identificazione.

Il dato più recente, aggiornato al 2024, fotografa il collasso numerico dell’intero sistema: su 7.130 ordini di allontanamento emessi, solo 1.180 sono stati effettivamente eseguiti. Pari al 16,5%. La macchina repressiva, per quanto ingigantita nella narrazione politica, non regge l’urto dei numeri.

Detenzione senza rimpatri

Nonostante l’espansione dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), la funzione di queste strutture continua a produrre più detenzione che rimpatri. Lo studio conferma che «le politiche di trattenimento non incidono sulle politiche di rimpatrio». I Cpr restano il luogo in cui la procedura di allontanamento si arena spesso già nelle prime settimane. La permanenza prolungata nei Cpr genera tensioni crescenti: atti di autolesionismo, resistenze fisiche e psicologiche, somatizzazioni da detenzione forzata. L’intero sistema si regge su una gestione muscolare: i rimpatriandi vengono ammanettati con fascette in velcro — usate in modo generalizzato e sistematico anche in assenza di resistenza, in violazione delle stesse linee guida — e trasferiti sotto scorta fino all’aeroporto.

Dietro la retorica del "rigore", il sistema dei rimpatri forzati mobilita una filiera burocratica, sanitaria e logistica estremamente onerosa. I costi medi documentati dallo studio variano da 4.000 a 7.000 euro per ogni rimpatrio eseguito. Una cifra che comprende solo la fase finale dell’esecuzione: scorte armate, trasferimenti, voli charter dedicati (spesso noleggiati ad hoc per piccoli gruppi), presenza di personale medico, logistica aeroportuale separata, vigilanza aeroportuale specifica. Nel solo 2024, limitandosi ai 1.180 rimpatri effettivi, la spesa per i voli e il trasferimento supera già i 6 milioni di euro. E non tiene conto della parte sommersa: detenzione nei Cpr, costi di mantenimento, stipendi del personale, servizi sanitari e amministrativi, convenzioni alberghiere per i voli rinviati, costi diplomatici e per la gestione dei documenti.

A questo si somma l’accordo siglato dal governo italiano con l’Albania: una convenzione che prevede l’apertura di due centri di detenzione esternalizzati, per una spesa iniziale di oltre 32 milioni di euro più costi fissi superiori al milione mensile.

La collaborazione internazionale rimane il vero tallone d’Achille dell’intero impianto. I rimpatri assistiti — più flessibili e incentivati economicamente — rappresentano una quota marginale, mentre la macchina dei rimpatri forzati si arena su un quadro multilaterale che non controlla.

Anche il monitoraggio indipendente previsto dalla normativa europea trova applicazione parziale. In Italia le comunicazioni preventive ai garanti avvengono mediamente 48-72 ore prima del rimpatrio, a fronte di preavvisi settimanali in paesi come Spagna, Svezia e Olanda. Questo restringe di fatto ogni possibilità di controllo sulle modalità di esecuzione o di ricorso effettivo.

I dati empirici raccolti dal gruppo di ricerca dell’Università di Bari sono netti: l’ossessione italiana (e ora europea) non ha mai prodotto più rimpatri. Dal 1998 al 2024 la macchina repressiva si è espansa logisticamente ma ha costantemente ridotto la propria efficacia numerica. Ogni annuncio sulla "stretta" si infrange contro il dato reale. E la narrazione muscolare si sbriciola sotto il peso dei numeri.

 

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