La verità sull’inverno demografico sta nei numeri, non nei comizi. Il rapporto 2025 del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA), intitolato “The Real Fertility Crisis”, affronta direttamente il tema della denatalità, documentando un divario strutturale tra il numero di figli desiderato e quello effettivamente avuto. Secondo la rilevazione condotta insieme a YouGov in 14 paesi che rappresentano oltre un terzo della popolazione globale, quasi un quinto degli adulti in età riproduttiva (18 per cento) ritiene che non riuscirà ad avere i figli che desidera, con l’11 per cento che prevede di averne meno e il 7 per cento più del previsto.

Il rapporto insiste su un nodo che, seppur lampante, raramente emerge nel discorso pubblico: la mancanza di mezzi è più determinante della mancanza di volontà. I dati raccolti mostrano come il 39 per cento degli intervistati indichi nei limiti economici il principale ostacolo alla realizzazione del proprio progetto familiare. A questi si aggiunge il 21 per cento che cita la precarietà lavorativa e il 19 per cento che individua nel costo della casa un ulteriore freno.

La media complessiva evidenzia che oltre la metà delle persone che desiderano un figlio è ostacolata da vincoli economici.

Italia a bassa fertilità

L’Italia, in particolare, si colloca nel gruppo di paesi a bassa fertilità. Anche qui il 29 per cento degli intervistati individua nei limiti finanziari la ragione del calo, seguito dal 14 per cento che segnala l'impossibilità di trovare un’abitazione adeguata, e dal 30 per cento che lamenta l’insufficiente supporto del partner nella gestione della cura familiare.

La mancanza di servizi di assistenza, il costo dell’istruzione, la carenza di lavoro stabile e l’accesso limitato alle cure riproduttive compongono una rete che immobilizza.

L’indagine rivela che quasi una persona su quattro (23 per cento) ha rinunciato a un figlio desiderato per ostacoli incontrati nel momento ritenuto giusto per diventare genitore. E tra questi, più del 40 per cento ha poi dovuto abbandonare del tutto l’intenzione.

Inoltre, il 13 per cento degli intervistati ha vissuto sia una gravidanza indesiderata sia l’impossibilità di avere figli quando lo avrebbe voluto, segno di un sistema incapace di tutelare l’autonomia riproduttiva in entrambe le direzioni.

Il documento definisce chiaramente il problema: «Non è una crisi di rifiuto della genitorialità, ma una crisi di realizzazione del desiderio». Il concetto ricorrente è “reproductive agency”: la capacità di scegliere liberamente se, quando e con chi avere figli, supportata da condizioni sociali, legali ed economiche adeguate. Ma questa possibilità, sottolinea il rapporto, rimane inaccessibile per ampie fasce della popolazione mondiale.

Impossibile esercitare le proprie scelte

Il dato più ricorrente è l’invisibilità del desiderio frustrato. Tra le persone sopra i 50 anni, che hanno già concluso la fase riproduttiva, il 31 per cento ha avuto meno figli di quanti avrebbe voluto. Soltanto il 38 per cento dichiara di aver raggiunto il proprio obiettivo ideale di dimensione familiare.

Nel capitolo dedicato alla composizione dei fattori, il report distingue cinque categorie: economici, sanitari, sociali, di coppia e di contesto. L’elemento economico prevale in tutti i 14 paesi analizzati, con picchi in Corea del Sud (58 per cento), Sudafrica (53 per cento), Thailandia (51 per cento) e Marocco (47 per cento).

In Italia, il 12 per cento degli intervistati ha indicato l’assenza di asili e servizi per l’infanzia come fattore limitante, mentre il 19 per cento ha segnalato il disaccordo del partner sul numero dei figli desiderati.

Il dato trasversale, secondo il rapporto, è che le persone non sono nelle condizioni di esercitare le proprie scelte. Né chi desidera avere figli, né chi intende evitarli. Il risultato è che la metà degli intervistati ha vissuto almeno un’esperienza di disallineamento tra intenzioni e risultati riproduttivi. «Quando le persone sentono che le loro scelte vengono orientate o giudicate, rispondono con una minore propensione a formare famiglie», si legge nel documento.

L’impatto dell’accesso sicuro all’aborto

Anche le politiche pubbliche risultano distanti dai bisogni rilevati. Misure coercitive, incentivi economici una tantum, restrizioni all’aborto o alla contraccezione non hanno prodotto effetti duraturi, afferma l’UNFPA, e in alcuni casi hanno avuto conseguenze contrarie agli obiettivi prefissati. L’accesso negato a servizi di interruzione sicura di gravidanza resta, secondo l’agenzia, una delle principali cause di infertilità e mortalità materna.

Nel complesso, la crisi demografica descritta nel rapporto non si presta a letture ideologiche. Il documento evita qualsiasi enfasi e riporta un insieme coerente di evidenze, raccolte in contesti geografici, sociali e culturali diversi. La conclusione non è una ricetta politica, ma una constatazione: le società che vogliono affrontare la denatalità devono partire dall’ascolto dei bisogni delle persone, non dal giudizio sui loro comportamenti.

«Non servono politiche che indichino quanti figli fare, ma politiche che permettano di farli», scrive l’UNFPA. Tradotto: serve ascoltare le persone, e offrire le condizioni per costruire liberamente la propria vita. Non è ideologia, è sopravvivenza.

Se davvero il calo demografico è un problema, allora è il momento di riconoscere che la denatalità è il sintomo di una malattia sociale fatta di disuguaglianza, solitudine e abbandono. E che continuare a incolpare chi non ce la fa — le donne, le famiglie, i giovani — non solo è ingiusto: è falso.

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