El Pibe de oro diceva di lui: «Non è una stella mondiale È bravo, sì, peccato sia inglese». Pèrez lo definì un simbolo della post-modernità. Ora il campione ex Manchester e Real Madrid compie mezzo secolo di vita
Quando, nel 2003, Florentino Pérez presentò David Beckham ai tifosi del Real Madrid disse: «È un simbolo della nostra epoca, un simbolo della post-modernità», collocandolo già oltre il calcio, un po’ più in là, con un piede in campo (il destro) e il resto (del corpo) negli spot, quasi consegnandolo a un saggio di David Foster Wallace che però si stava concentrando su Roger Federer.
Oggi che compie cinquant’anni, il calciatore più bello, non quello più bravo, fa il designer di moda per Boss, è presidente dell’Inter Miami – la squadra dove gioca Lionel Messi – ed è coproprietario del Salford City insieme ad alcuni dei suoi compagni del Manchester United. L’impressione è che David Beckham sia sempre stato, e con naturalezza, in vetrina, in posa, in copertina più che in campo, nonostante abbia avuto un grande piede destro, un piede che trovava compagni e angoli delle porte avversarie meglio di Chi l’ha visto. Nonostante suo padre appaia come quello di Mozart, uno che ha passato la vita a farne un calciatore assoluto, riuscendoci e venendo tradito allo stesso tempo. Passaggi, corner, punizioni.
Messa così, sembra uno che risolve problemi stando quasi fermo. Giocando da post-calciatore.
Ma adesso che è difficile trovare un calciatore implacabile sulle punizioni, adesso che è difficile trovare uno che segni calciando dalla sua metà campo, adesso che è difficile trovare un calciatore che apra il campo da una parte all’altra con la precisione di un Gps, un po’ di nostalgia per David Beckham viene, e anche la consapevolezza che non fosse solo uno da spot pubblicitario affiora. Perché David Beckham e il suo calcio sono sempre stati zavorrati dalla sua bellezza, dai suoi cambi di look, dai capi indossati, dagli spot girati e poi dall’unione con l’ex Spice Girls, Victoria Adams, che l’ha definitivamente portato dal cinema naturale del campo alla narrativa fiction: dalla porta di calcio a quella di un set fotografico.
Un prima e un dopo
C’è un David prima di Victoria e un David dopo Victoria, anche se Victoria sembrava l’approdo naturale. Due così dovevano stare insieme. Erano il pop calcistico che si coniugava col pop musicale. Anche se quell’unione lo portò via dal Manchester United e dal suo padre putativo: sir Alex Ferguson. L’allenatore, la guida, il boss. Per uno che viene dai cantieri navali di Glasgow il mondo di Beckham è l’Anticristo, anche se poi furono due calci d’angolo di Beckham a dargli la Champions League (1999). Ma se hai fatto l’operaio in un cantiere navale prima di diventare calciatore professionista e poi allenatore-patriarca del Manchester United sai che conta solo l’essenziale, e l’essenziale per David Beckham era il superfluo. Nel mondo di David i valori vengono dopo il look, e questo per Ferguson era inaccettabile.
In mezzo ci sono liti, uno scarpino lanciato dal boss che colpisce il calciatore sul sopracciglio sinistro, e poi la cessione al Real Madrid. David non viene ceduto perché vuole andarsene come accaduto a Khvicha Kvaratskhelia col Napoli, no, Beckham viene ceduto perché delude ripetutamente Ferguson, s-travolgendo il suo calcio essenziale con il superfluo che va in copertina. Come poteva un calciatore prettamente estetico che si sublimava nei tocchi da fermo resistere con un allenatore che incarnava il pragmatismo, la ricerca e il sacrificio calcistico? Ferguson pretendeva che per i suoi calciatori il calcio fosse tutto, invece per Beckham – dopo l’unione con Victoria – era una parte del tutto. Anni dopo, Ferguson dirà di aver lavorato solo con quattro fenomeni nella sua lunga carriera: Cantona, Giggs, Scholes, Ronaldo. E questo era un tunnel all’amore che aveva provato, una chiusura definitiva con il ragazzino che era andato a cercare, aveva fatto crescere e che aveva messo in campo con Éric Cantona.
Il giudizio di Best
Ma per capire Beckham bisogna guardare le facce che fa nella docuserie Netflix il suo gregario, l’uomo che era il contorno sulla fascia destra, Gary Neville, uno che ha incarnato tutta la vita il pragmatismo fergusoniano. Comunque meglio le facce di stupore di Neville davanti alle uscite incongrue di Beckham che il giudizio che diede George Best inchiodandolo all’effimero: «Non sa calciare col piede sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molto. A parte questo, è a posto». È un ritratto impietoso, che non rende giustizia al ragazzino di Leytonstone che realizzò il sogno del padre (che lo allenava al Brimsdown Rovers, quando aveva 15 anni) giocando nella squadra del cuore: il Manchester United (c’ha giocato 12 anni), con la quale ha vinto tutto: sei Premier, due coppe d’Inghilterra, due Charity Shield, una Champions e una Intercontinentale.
Eppure Best non ha del tutto torto come non ha del tutto ragione, perché si aspettava che David dribblasse, ma David era uno dei pochi calciatori di fascia che non aveva bisogno del dribbling, che poteva fare a meno dello slalom, perché appena riceveva il pallone apriva il gioco, inventava corridoi, metteva l’attaccante in condizione di tirare in porta servendogli il miglior pallone possibile, o crossava sulla testa degli accorrenti in area facendo scendere la palla con la precisione dell’Arcangelo Gabriele, ogni passaggio era uno strappo in prima classe, la Beckham business class, tanto che a riguardarli i suoi lanci e i suoi cross, lasciando per un momento stare le punizioni e i suoi corner (un capitolo a parte), viene da pensare che il postmoderno Beckham fosse il calciatore perfetto per le compilation, una guida naturale all’assist e alle aperture col pallone in movimento, e un maestro col pallone da fermo, e che sì, il suo più grande errore fu andare a giocare negli Stati Uniti, invece di rimanere in Europa, scelta che diede a Ferguson la certezza di aver compreso il ragazzo e il calciatore prima e meglio di tutti, tanto che poi Fabio Capello da ct dell’Inghilterra gli chiese di andare a giocare al Milan per tenerlo nella nazionale, perché giocare con i Los Angeles Galaxy nella Mls equivaleva a un pensionamento.
Il verdetto del Pibe de oro
Tanto che persino un buono come Jorge Valdano, chiamato a giudicare i suoi anni a Madrid, scrisse: «È due persone in una: è una persona quando gioca e un’altra nella vita. Fuori dal campo, come certi uccelli della Patagonia, fa una cagata a ogni passo. Ma durante i novanta minuti mostra doti di concentrazione, buona capacità di partecipazione, abnegazione, solidarietà». E i gol? Pochini, rispetto al suo piede. Ma il suo vero punto debole rimane la nazionale inglese, che guida da capitano: 3 mondiali e 3 europei, con poche partite da romanzo. Giusto l’espulsione per il calcio rifilato a Diego Simeone, ai mondiali del 1998, con l’argentino che cerca quel fallo e poi l’ingigantisce, facendo espellere l’inglese, persino Bobby Robson lo condannerà dopo il ct Glenn Hoddle, un idolo di Beckham.
Per mesi il calciatore del Manchester sarà bersagliato negli stadi del paese. Maradona dirà di lui: «È talmente bello che sembra una donna. Come giocatore è bravo, ma non è una stella mondiale come vogliono far credere. È bravo, questo sì, peccato che sia inglese». Ma poi si riscattò portando l’Inghilterra ai mondiali successivi con una punizione – bellissima – contro la Grecia, la parabola di quella palla è quella della vita di David, gira talmente tanto che cambia direzione e palo, ingannando tutti a cominciare dal portiere greco Antōnīs Nikopolidīs. Se fosse stato meno glamour e con al suo fianco una donna normale, è probabile che parleremmo di più dei suoi gol, ma ogni volta che ne segnava uno le telecamere al posto del replay inquadravano la moglie Victoria. In quello stacco da campo a tribuna c’è David Beckham, più passerella che erba, più estetica che sostanza. Si è lasciato coprire di etichette fino a sparire dal campo. Un altro col suo piede destro avrebbe fatto di più. Restano 1.400 Vhs di sue partite girate dal padre, una missione per Indiana Jones. Un tesoro nascosto, tutto quello che ha fatto col pallone quando non lo guardavamo, quando non era il più bello, ma il più bravo.
© Riproduzione riservata



