«Questo governo andrà a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo», ha detto Giorgia Meloni nella conferenza stampa che ha fatto seguito al Consiglio dei ministri tenutosi a Cutro. L’affermazione è altisonante, ma bisogna capire cosa significhi sul piano del diritto.

Perché non è che uno stato possa decidere di configurare un reato come universale e da quel momento perseguirlo anche fuori dai propri confini. Il reato è quello di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina», con sanzioni che vanno da 10 a 20 anni per lesioni gravi o gravissime a una o più persone; da 15 a 24 anni per morte di una persona; da 20 a 30 anni per la morte di più persone.

Destinatario delle sanzioni, in caso di morte o lesioni, è chi «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello stato, ovvero di altro stato (…), quando il trasporto o l’ingresso sono attuati con modalità tali da esporre le persone a pericolo per la loro vita o per la loro incolumità o sottoponendole a trattamento inumano o degradante».

Poco dopo si precisa ciò che Meloni ha definito come reato universale: «se la condotta è diretta a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello stato, il reato è punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori di tale territorio» (art. 8, c. 1).

La Convenzione di Palermo. Il Protocollo sul traffico di migranti

In base al principio di territorialità, il diritto penale italiano è applicabile solo entro i limiti dei confini dello stato (art. 6, c. 1, c.p.). Il principio può essere derogato in una serie di casi.

Tra gli altri, è «punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero» un reato per il quale «disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge penale italiana» (art. 7, c. 1, n. 5 c.p.). Dunque, la legge e la giurisdizione penale italiana possono valere anche per reati compiuti fuori dal territorio italiano, non da cittadini italiani e non a danno di cittadini italiani, ove ciò sia contemplato da una convenzione.

La convenzione internazionale che potrebbe consentire alle autorità italiane di perseguire anche oltre confine i reati di cui al decreto Cutro è la Convenzione Onu contro la Criminalità organizzata transnazionale (United nations convention against Transnational Organized Crime, Untoc), nota pure come Convenzione di Palermo, entrata in vigore nel 2003. Uno dei tre protocolli di cui essa consta riguarda «il traffico di migranti via terra, mare e aria».

La Convenzione, ratificata dall’Italia nel 2006 (l. n. 146), riconosce la giurisdizione dello stato parte quando uno dei gravi reati da essa previsti (art. 5, par. 1) sia compiuto al di fuori del territorio di tale stato, ma «al fine di commettere un grave reato nel suo territorio» (art. 15, c. 2, lett. c).

Questa disposizione, che definisce una condizione precisa per la perseguibilità dei reati contemplati, potrebbe costituire la base giuridica della giurisdizione extraterritoriale dello stato italiano sancita dal decreto Cutro. Ma, come vedremo, si pongono una serie di problemi.

La giurisprudenza sul reato universale

Non è la prima occasione in cui si ammette la possibilità dello stato italiano di esercitare giurisdizione extraterritoriale, in applicazione della Convenzione di Palermo. Ciò è avvenuto già ad opera della giurisprudenza.

Nel 2021, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che sussiste la giurisdizione dello stato italiano «per un “reato grave”» previsto dalla Convenzione di Palermo, «commesso dallo straniero in “alto mare” nell’ambito del traffico transnazionale di migranti», qualora ne derivino «effetti sul territorio italiano» (Cass. pen., sez. I, sent. 2 luglio 2021, n. 31652).

Tuttavia, in altri casi la Corte aveva espresso una posizione opposta. Ad esempio, nel 2020 (Cass. pen., sez. I, sent. 17 giugno 2020, n. 19762), in un caso di traffico internazionale di armi, i giudici avevano escluso che la giurisdizione penale italiana potesse fondarsi sulla citata norma del codice penale e sulla Convenzione di Palermo, in mancanza di una norma nazionale che ne prevedesse espressamente l’estensione oltre i confini territoriali. Ciò che ora il governo sembra aver fatto con il decreto Cutro.

I problemi giuridici

Nel nuovo decreto non si fa alcun richiamo alla Convenzione di Palermo, né ad altra base giuridica che legittimerebbe la giurisdizione universale dello stato italiano. E ciò, oltre a denotare sciatteria normativa, è una grave carenza: il governo ha costruito un edificio giuridico senza mostrarne le fondamenta, affinché ne sia verificabile la tenuta. Ma anche qualora la Convenzione fosse stata richiamata, il decreto avrebbe comunque presentato criticità rilevanti sul piano del diritto.

Innanzitutto, la norma legittima la giurisdizione italiana per un reato commesso fuori dall’Italia in relazione all’entrata illegale, anche solo potenziale, di stranieri nel territorio dello stato.

Questa norma, fissando un chiaro collegamento con l’Italia, sembra conforme alla Convezione di Palermo, che prevede la giurisdizione di uno stato membro per un reato che, se pur «commesso al di fuori del suo territorio», tuttavia sia finalizzato a «commettere un grave reato sul suo territorio».

Ma come potrà l’Italia dimostrare, ad esempio, che un’imbarcazione che naviga in acque internazionali con migranti a bordo sia diretta proprio in Italia? La disposizione non lo precisa, quindi manca un elemento essenziale per la configurabilità della fattispecie concreta, peraltro in violazione del principio di tassatività della norma penale.

E non è tutto: le sanzioni previste possono riguardare anche il caso in cui il reato sia commesso fuori dal territorio nazionale, da cittadini stranieri, e la nave non sia diretta in Italia, bensì «in altro stato».

Questa disposizione si pone al di fuori della Convenzione di Palermo: lo stato italiano non può sanzionare reati che non presentino un collegamento con l’Italia, come visto. Tant’è che poco dopo si dice che, se il reato si consuma fuori dal territorio nazionale, l’Italia possa esercitare la propria giurisdizione solo se «la condotta è diretta a procurare l’ingresso illegale nel territorio» italiano.

Ma allora le sanzioni previste per reati verificatisi fuori dall’Italia relativamente a migranti diretti in altri paesi restano mera teoria. Insomma, il governo le ha messe per iscritto, ma esse sono inapplicabili.

I problemi di perseguibilità concreta

Sul piano concreto si pongono problemi ulteriori. Tralasciamo il fatto che un inasprimento delle sanzioni per reati derivanti dal traffico di migranti, come per altri reati, non significa necessariamente maggiore deterrenza, come in Italia – dove non si fanno verifiche ex post dell’efficacia di norme e sanzioni - si tende a ritenere, reputando che la realtà si conformi in automatico agli auspici dei legislatori.

La nuova norma riguarda tutta la catena di soggetti coinvolti in un traffico di migranti – chi «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto» - ma per poter perseguire quelli che si trovino in altri paesi l’Italia dovrebbe comunque chiederne l’estradizione, e non è detto che la ottenga.

Anche ciò induce a dubitare che quello previsto dal governo possa definirsi un vero e proprio reato universale – alla stregua dei crimini di guerra o contro l’umanità – come detto in conferenza stampa, cioè perseguibile ovunque senza condizioni. Un conto è intercettare gli scafisti a bordo di un’imbarcazione malmessa. Altro contro è, invece, perseguire i trafficanti, al riparo in paesi che non sempre brillano per democrazia.

Dunque, il concetto di globo terraqueo controllato dall’Italia grazie al nuovo reato universale, oltre a presentare falle sul piano del diritto, è impraticabile su quello di fatto. Ma questo Giorgia Meloni non lo dice. O, forse, nemmeno lo sa.

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