Angelina (nome di fantasia) è una giovane donna di origine etiope che è arrivata in Italia attraverso un ricongiungimento familiare. Oggi frequenta un master all’Università Tor Vergata di Roma, ma ha problemi con il certificato di iscrizione alla laurea, perché il permesso di soggiorno le è scaduto e l’ufficio immigrazione della Capitale si rifiuta di rinnovarlo. E il motivo è presto detto. La questura chiede ad Angelina il certificato di residenza, che però lei non possiede, come suo marito, e anche i suoi due figli piccoli non hanno documenti.

Perché tutta la famiglia è domiciliata all’interno di una occupazione abitativa che si trova nella periferia est di Roma e, soprattutto, l’articolo 5 del decreto legge 47/2014, altrimenti noto come il Piano casa ideato dall’allora ministro Maurizio Lupi (governo Renzi) prevede che «chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi essenziali in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge».

«Quella della residenza negata è una delle problematiche maggiori che affliggono le persone che si presentano ai nostri sportelli», dice l’avvocata Rita Vitale che coordina gli operatori legali dell’associazione fondata da Luigi Manconi, A Buon Diritto, che proprio in questi giorni compie 20 anni di attività nella tutela delle persone più deboli.

Tuttavia – secondo Vitale – «si tratta di una prassi illegittima quella adottata dalla questura di Roma nel caso in questione, dato che una circolare del ministero dell’Interno del 2015 ha chiarito che, per le persone che non potevano indicare il proprio indirizzo in ragione dell’articolo 5 del decreto Lupi, sarebbe stato possibile presentare l’indirizzo anagrafico convenzionale, come accade per i senza fissa dimora. Ma la questura non accetta nemmeno questa soluzione, ora. Così abbiamo presentato ricorso».

Finta residenza 

Foto LaPresse 10-03-2014 Cronaca Targa in memoria di Modesta Valenti, donna senza fissa dimora morta 31 anni fa in stazione Termini. Partecipano Mauro Moretti, amministratore delegato di Fs Italiane, Ignazio Marino, sindaco di Roma, Marco Impagliazzo, presidente di Sant'Egidio e Monsignor Matteo Zuppi, Vescovo di Roma Centro. Stazione Roma Termini. Binario 1

«Migrare sulla residenza fittizia, che a Roma significa indicare come indirizzo via Modesta Valenti (n.d.r dal nome di una donna senza dimora morta qualche anno fa alla stazione Termini perché i sanitari si rifiutarono si soccorrerla) per molti stranieri è un grimaldello per accedere ai servizi essenziali». Continua Vitale: «per loro non solo è diventato sempre più difficile l’accesso alla casa con un contratto regolare, a volte anche per motivi di pregiudizio razziale, così molti si affidano alle occupazioni, ma capita anche che la residenza venga richiesta sempre più spesso per poter aprire un conto corrente ed essere assunti in maniera regolare, per esempio».

È il cane che si morde la coda, dunque. Come racconta bene il caso di Michael (anche il suo nome è di fantasia, ma anche la sua storia è vera), uomo di origine nigeriana che è in Italia con un permesso di lavoro per giardiniere. Michael paga regolarmente da tempo l’affitto di un appartamento che condivide con altre persone, ma il proprietario dello stabile si rifiuta di fargli il contratto. Così, quando l’uomo ha dovuto rinnovare il permesso di soggiorno alla questura di Roma, ha indicato anche lui «come luogo in cui una persona ha la dimora abituale», secondo la definizione di residenza data dalla Costituzione, l’indirizzo fittizio di via Modesta Valenti. Che però in un primo momento non è stata accettata dagli uffici come soluzione e, soltanto, dopo la diffida inviata dall’Associazione A Buon Diritto, la questura di Roma ha rinnovato il permesso di soggiorno di Michael.

Il potere del sindaco

Più in generale, «si tratta di una battaglia di civiltà, cioè quella di poter garantire a tutti i servizi essenziali, di accedere alle graduatorie per le case popolari, di garantire ai bambini che frequentano le scuole di accedere alle mense», dice Alberto Campailla, presidente dell’Associazione di mutuo soccorso Nonna Roma, presentando nella Sala del Municipio I della Capitale una proposta redatta da decine di organizzazioni nazionali e sottoscritta da altrettanti giuristi per l’abrogazione del decreto Lupi-Renzi.

«Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, ha l’occasione di invertire la tendenza e tutelare queste persone, perché è intollerabile che donne, uomini, bambine e bambini siano privati del godimento dei diritti fondamentali per finalità punitive», aggiunge Francesco Ferri, operatore legale della ong Action Aid fortemente impegnata su questo tema. «Infatti, il sindaco di una città ha la possibilità, secondo quanto prevede il decreto legge 14/2017, in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela, di dare disposizioni in deroga a tutela delle condizioni igienico-sanitarie». Proprio in queste ore, invece, «alcuni consiglieri comunali stanno discutendo di una mozione da presentare all’Assemblea capitolina per derogare a una legge ingiusta, che colpisce in maniera insensata i più deboli della società», chiariscono fonti dal Campidoglio.

Ci sentiamo clandestini

La maggioranza di Gualtieri, dunque, sta lavorando per mettere una pezza al buco ed evitare che accadano più storie come quelle che si ascoltano specialmente nella periferia est di Roma, evidentemente. Dove un uomo straniero che abita nella borgata del Quarticciolo che qualche mese fa ha avuto un problema di salute, non avendo l’assistenza sanitaria, si è sentito chiedere per un trattamento sanitario in un ospedale della città mille euro al giorno, per una cura di otto giorni.

Come ha raccontato la moglie Mariza che lavora come addetta alle pulizie: «aspettiamo da oltre un anno la possibilità di fare la residenza per poter avere la tessera sanitaria, ma per ora non è possibile, dato che risulto ancora residente in via Modesta Valenti. Siamo in Italia da molti anni, ma ci sentiamo ancora dei clandestini».

A pensarla così è Lana, che vive nella stessa borgata con il marito e un figlio. «Lavoriamo tutti e due, io in una mensa privata e viviamo in una casa popolare. Abbiamo partecipato alla sanatoria e dunque aspettiamo da oltre un anno che ci venga data la residenza. Senza quella non posso portare nemmeno mio figlio dal pediatra». 

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