A Formia, nel golfo di Gaeta, la villa confiscata con piscina e vista sul mare all’ex vice sindaco di Santa Maria Capua Vetere, Nicola Di Muro, è da qualche tempo diventata "La casa giusta", un modello di accoglienza per donne straniere vittime di tratta e per famiglie vulnerabili. «Qui dentro svolgiamo attività di inclusione sociale e di lotta all’emarginazione sociale, come l’accoglienza di cittadini migranti, avendo ottenuto una concessione comunale di sei anni», racconta Federica Marciano, la presidente della cooperativa Alternata Silos che gestisce il bene sequestrato negli anni ’90 a Nicola di Muro, uomo politico campano considerato vicino ai clan di camorra, come si legge sul sito internet de “La casa giusta”. 

«Oltre a noi di Alternata, ci sono altre associazioni del luogo che si occupano del bene confiscato. Abbiamo costituito una associazione temporanea di imprese». Spiega Marciano: «Si tratta di un immobile di pregio completamente restituito alla cittadinanza, che è diventato così un bene comune». E poi continua così la presidente della cooperativa Alternata Silos, spiegando nel dettaglio le attività che qui dentro vengono svolte: «la struttura è divisa in piani. Ospitiamo donne straniere con bambini o donne sole, in generale vittima di tratta. Ma vengono svolte anche attività per ragazzi con disabilità, ed è presente all’interno della struttura anche una sartoria sociale, un teatro e una sala prove».

Purtroppo, però, i tagli economici all’accoglienza dei migranti contenuti nel Decreto Sicurezza, ne hanno messo a rischio per qualche tempo la sostenibilità della struttura, tanto che nel recente passato alcuni operatori qualificati, come un insegnante di italiano e una assistente sociale sono stati licenziati. Riferisce ancora Federica Marciano: «ma nonostante i tagli non ci siamo arresi e abbiamo portato avanti il nostro percorso, che comprende anche la collaborazione con una realtà storica nel campo della gestione dei beni confiscati alle mafie, come la coop Al di là dei sogni che, tra le altre cose, ha realizzato sui terreni confiscati al clan Moccia il primo impianto biologico sorto su un bene confiscato alle mafie in Italia».

«Esperienze come quelle de “La Casa Giusta” sono quasi come una mosca bianca nel panorama italiano, perché il meccanismo di assegnazione dei beni confiscati rimane molto farraginoso», racconta a Domani Emanuele Petrella, volto storico dell’accoglienza a richiedenti asilo e rifugiati a Roma che nel quartiere di Montesacro, con la coop Idea Prisma ‘82, coordina le attività dello Sprar Well-c-Home. «Di recente, però, la coop Alternata ha vinto il bando della Regione Lazio per la ristrutturazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, proprio per la manutenzione de “La Casa Giusta” e partecipiamo anche a diversi progetti europei, come quello sull’islamofobia», dice  Petrella, psicologo e formatore che fa parte pure lui della coop Alternata Silos e ritiene «che sarebbe importante promuovere e implementare processi più veloci di assegnazione dei beni, anche temporaneamente, al fine di tutelarli e non lasciare che si deteriorino».

Il modello CiancArìa

Inoltre, Emanuele Petrella cita come esempio virtuoso nel recupero per finalità sociali di beni abbandonati la sperimentazione che è attualmente in atto proprio nel Lazio con il modello CiancAria «una rete di spazi abbandonati, urbani e di campagna, luoghi requisiti alle mafie che è già attiva con alcuni progetti nelle province di Roma, Latina, di Rieti e si sta estendendo anche in Abruzzo, coinvolgendo associazioni, singoli, artisti, persone a rischio emarginazione, in maniera attiva e partecipata».   

Samanta Savelli fa parte del coordinamento di CiancArìa e spiega a Domani che la mission della rete è quella di «promuovere, tra le altre cose, l’accoglienza e la cooperazione, aiutando le persone più vulnerabili a raggiungere l’autodeterminazione attraverso percorsi di formazione e impiego lavorativo; a partire, in particolare, dalla riqualificazione di spazi abbandonati da ridestinare ad attività sociali, culturali ed agro-ambientali».

Savelli racconta anche del progetto Solid House che attualmente vede attive tre strutture: ad Aprilia, in provincia di Latina, nella zona di Laurentina, a Roma, ad Ornaro Romano, nella provincia di Rieti e che «accolgono migranti in condizione di vulnerabilità̀ socio-economica e, in particolare, in difficoltà per quanto concerne il diritto all’abitare. In passato le stesse strutture che aderiscono a CiancArìa hanno ospitato anche italiani che si trovavano in condizioni di fragilità economica». Non solo. Tra gli interventi della rete vi è anche quello del contrasto alla violenza sulle donne. A rivelarlo è la storia di Serena (nome di fantasia) che è contenuta nel “XVI rapporto sulle migrazioni a Roma e nel Lazio” redatto dal centro studi Idos. La donna, infatti, si legge nel report: «era una giovane donna africana venuta in Italia come missionaria, con intenti di pace e di aiuto, e poi si è ritrovata a vivere situazioni gravemente traumatiche di umiliazione e violenza. Serena è stata abusata sessualmente, violata e privata della sua dignità di donna e di essere umano. E ora è stata inserita in un contesto protetto e sicuro, all’interno di una Solid House di CiancArìa a Roma, che le ha fornito un contatto lavorativo». Ed è grazie anche all’interessamento al suo caso da parte dell’Associazione Differenza Donna e dunque all’accoglienza e il sostegno che ha ricevuto da CiancAria, che Serena oggi ha potuto rifarsi una vita nella Capitale al riparo dai suoi aguzzini. 

La Capitale che respinge

E tuttavia le storie dei cittadini stranieri che abitano nella Regione Lazio non solo soltanto a lieto fine. Anzi. C’è chi, quasi quotidianamente, subisce la violenza istituzionale, cioè gli effetti delle prassi respingenti attuate dagli uffici anagrafici di Roma, per esempio. C’è Safira (nome di fantasia) cittadina marocchina, da molti anni in Italia e madre di un bambino di due anni.  La cui storia di violazioni, insieme a tante altre, è stata raccolta dagli operatori legali di Action Aid e A Buon Diritto, ed è anch’essa è contenuta nel “Dossier sulle migrazioni a Roma e nel Lazio”. Una vicenda che ci parla, in questo senso, di una donna che ha più volte provato a richiedere l’iscrizione anagrafica per suo figlio, ma con l’ufficio preposto che le ha chiesto di esibire il passaporto del minore, nonostante la donna avesse fatto presente il rifiuto dell’ambasciata del Marocco di rilasciare il documento.

Così, il Comune di Roma, in un primo momento, non aveva effettuato l’iscrizione anagrafica, generando tutto un corollario di diritti negati o comunque non esigibili per una bambina di soli 2 anni, come l’accesso al Servizio sanitario nazionale e alle misure di welfare ed assistenza sociale, appunto. È accaduto anche ad Azizi (anche il suo nome è di fantasia e pure la sua storia è vera) un cittadino somalo che vive in una delle occupazioni organizzate della periferia Sud-Est di Roma, di vedere violati i propri diritti minimi. L’uomo è titolare di protezione internazionale, ma a causa di una grave vulnerabilità psico-fisica, non aveva rinnovato il suo permesso di soggiorno.  Dopo aver faticosamente ottenuto un appuntamento per il rinnovo presso l’ufficio immigrazione della Questura di Roma, Azizi si è recato presso il Municipio in cui vive per chiedere l’iscrizione anagrafica, necessaria per poter rinnovare il proprio documento. Ma gli è stata negata. «Ed anche in questo caso, soltanto con l’avvertimento che, in caso di un ulteriore rifiuto, si sarebbe intrapresa un’azione legale, l’uomo ha potuto ottenere l’iscrizione anagrafica e ha potuto rinnovare il suo permesso di soggiorno», hanno riferito gli operatori legali, Francesco Ferri e Rita Vitale. Non soltanto.

La rete scuole migranti ha ricevuto anche diverse segnalazioni relative ai respingimenti di alunni stranieri neo-arrivati nelle scuole romane «le quali continuano a sovraccaricare le famiglie di richieste improprie», ha scritto Antonella Priori, denunciando il caso di una bambina etiope di 8 anni che ha perso cinque mesi di scuola perché la segreteria di un istituto scolastico che si trova nella zona di Anagnina non ha accettato una pagella tradotta in inglese dall’aramaico. E solo l’intervento dell’ufficio scolastico regionale, in questo caso, ha sbloccato la pratica, sottolineando in una nota che «la scuola deve prima accogliere i bambini e, solo in un secondo momento, richiedere dei documenti». Dunque, mentre tante associazioni nella Capitale d’Italia accolgono gli stranieri, alcuni uffici pubblici li respingono, praticando quella che appare una vera e propria violenza istituzionale, sulla pelle dei più vulnerabili. 

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