L’amministratore delegato del colosso energetico è stato sentito a Roma come testimone nel processo su Giulio Regeni, il giovane ricercatore rapito al Cairo il 25 gennaio del 2016 e poi ritrovato senza vita nove giorni dopo con evidenti segni di tortura
«Non ci fu mai chiesto di parlare alle autorità egiziane di Giulio Regeni. Non ce lo chiese Renzi, all’epoca al governo, e non ce lo chiese la Farnesina, dove sì, avevamo una persona all’interno che si occupava di formazione».
Claudio Descalzi era amministratore delegato di Eni, il colosso energetico partecipato dallo Stato, anche quando il giovane ricercatore di Fiumicello venne rapito al Cairo il 25 gennaio del 2016 e poi ritrovato senza vita nove giorni dopo con evidenti segni di tortura.
Martedì 27 maggio, il manager è stato sentito come testimone nel processo a Roma a carico di quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani, accusati dell’omicidio del 28enne. Descalzi, incalzato dagli avvocati, ha raccontato ai giudici di aver appreso della tragica vicenda «dai giornali» e soltanto dopo di aver «spontaneamente domandato alle autorità egiziane di fare chiarezza».
«Mi sembrava doveroso parlare con Al Sisi, col ministro e con le altre istituzioni per capire cosa fosse accaduto. Del resto con l’Egitto Eni vantava allora un credito importante», ha continuato l’ad nell’aula intitolata a Vittorio Occorsio. Le risposte ricevute? «Rassicurazioni – ha precisato Descalzi – Ci hanno sempre rassicurato, anche in modo credibile, sul voler fare chiarezza. Ma poi non è stato così».
Parole, dunque, solo parole da parte degli egiziani davanti alle richieste del vertice del colosso energetico che, in quel periodo, stava realizzando nel paese «un progetto da nove miliardi di dollari».
Ma gli affari, appunto, sono rimasti affari, mai scalfiti dalla morte – definita dallo stesso Descalzi «atroce e inspiegabile» – di Regeni. Tanto che durante la sua audizione l’ad ha contestualizzato una sua vecchia affermazione sull’Egitto, datata 8 maggio 2023: «Ci sono paesi che se dai ricevi». «Io – ha precisato Descalzi – parlavo di altri bisogni. Non di Giulio Regeni.
Dopo le faccende sul gas russo, abbiamo dovuto trovare altre fonti per sostituirlo. E in quel caso, forse a fronte dei nostri vecchi investimenti, l’Egitto ci ha aiutato». Alla domanda poi dei legali presenti in aula circa un presunto incontro tra un funzionario Eni in Egitto, all’epoca dell’omicidio di Giulio Regeni, e l’Aise, Descalzi ha risposto in modo laconico: «Non mi risulta e non ne sono comunque al corrente». Per poi ribadire: «Noi di Eni non siamo diplomatici, può essere pericoloso entrare in certe questioni».
Ma sulle mail mostrate dalla trasmissione Report e secondo cui Eni avrebbe impartito l’ordine ai propri funzionari al Cairo di non menzionare la vicenda relativa al giovane ricercatore, Descalzi ha detto di «escluderlo». A febbraio 2016, l’ad ha dichiarato ad Amnesty International di riporre fiducia nel governo italiano e in quello egiziano per la risoluzione del caso.
«Ripone ancora fiducia nei confronti dei due esecutivi?», ha domandato l’avvocato. «La fiducia oggi è molto bassa», la risposta. A cui, nell’esame successivo, ha fatto eco quella dell’ex ministro Luigi Di Maio. «Dall’Egitto – ha dichiarato – c’è stata un’evidente mancanza di collaborazione, nonostante le nostre continue richieste».
E, sulla mancata attuazione della convenzione bilaterale sul contrasto alla tortura, il pentastellato ha risposto invece in modo vago. «Non credevamo fosse fondamentale ai fini della notifica dell’avviso di comparizione» per quelli che poi sarebbero stati gli imputati del processo.
Tra i testimoni, i legali della difesa hanno chiamato anche l’allora ministro degli Esteri Angelino Alfano, che però non si è presentato in udienza. Acquisito infine il verbale di interrogatorio del 2016 reso al Cairo da Mohamed Abdellah, il sindacalista degli ambulanti che tradì Giulio Regeni.
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