Le domande della polizia egiziana non sembravano «interessate a ricercare persone scomparse, ma l'obiettivo era più cercare di capire quale fosse il nostro lavoro». Francesco De Lellis è un ricercatore. Come Giulio Regeni faceva un dottorato sui sindacati egiziani al Cairo, nel 2015.

Le sue parole arrivano nell’udienza numero otto del processo alla prima corte di Assise per il rapimento e la tortura del giovane ricercatore di Fiumicello in cui sono imputati 4 agenti della National Security egiziana.

La testimonianza

De Lellis ripercorre l’interrogatorio che fa il 2 febbraio del 2015 alla stazione di polizia di Doqqi. Regeni era già scomparso da 8 giorni e il suo corpo senza vita sarebbe stato ritrovato il giorno dopo nella periferia del Cairo.

«Eravamo considerati un pericolo», ricorda. «C’erano stati arresti nei confronti di attivisti egiziani intorno al periodo del 25 gennaio, il giorno in cui era scomparso Giulio. Avevano fermato anche un giornalista freelance» ricorda De Lellis.

La sua testimonianza racconta il clima che si respirava allora e conferma come il lavoro degli inquirenti egiziani non sia mai stato interessato alla ricerca dei colpevoli, ma alla costruzione di versioni parallele che potessero scagionare l’apparato di sicurezza statale.

De Lellis poi lascerà il Cairo alcuni giorni dopo la morte del ricercatore su «consiglio dell’Ambasciata italiana» per ragioni di sicurezza.

La foto

L’udienza di oggi ha raccontato una nuova pagina del caso. Sino a ora, le sessioni si erano concentrate sui dettagli del rapimento e delle torture. In questa, invece, per la prima volta, si è parlato di Regeni come studioso e ricercatore ricostruendo i suoi cinque mesi di permanenza nella capitale egiziana.

A deporre come testimoni c’erano anche i colonnelli dei carabinieri dei Ros, Onofrio Panebianco e Loreto Biscardi. Di quel periodo di ricerca emerge un punto di svolta.

È l’11 dicembre del 2015, il ricercatore di Fiumicello e De Lellis prendono parte a una riunione che raduna diverse sigle sindacali indipendenti. L’oggetto dell’incontro, a cui prendono parte più di cento attivisti, è il giro di vite che il governo egiziano sta perpetrando contro numerose organizzazioni per i diritti dei lavoratori. «Giulio a margine della sala aveva chiacchierato con delle persone. A un certo punto, una ragazza gli scatta una foto con un tablet, era un atteggiamento sospetto, quasi da informatore», dice De Lellis.

«Giulio segnalò quello che era accaduto e l’impressione che avevamo era che si trattasse di una persona che non apparteneva a quel mondo. Mi sembra che Regeni chiese anche di cancellare le fotografie, lei rispose tergiversando e ridacchiando alle richieste». «Giulio rimase turbato da quell’episodio», ha aggiunto Panebianco.

De Lellis descrive anche il clima che si respira nel paese. «Le organizzazioni non governative che si occupavano di diritti erano già nel mirino del regime, c’era una stretta repressiva già in quel periodo».

«I sindacati indipendenti non erano mai stati riconosciuti dallo stato. Erano in una una zona grigia, agivano alla luce del sole ma faticavano a trovare un riconoscimento giuridico presso le istituzioni statali».

Gli appunti di Regeni

Una situazione confermata anche dagli appunti scritti dal ricercatore di Fiumicello: «Sono scioccato del fatto che gli ambulanti debbano fuggire dalla polizia e ciò avviene anche dieci volte al giorno», scrive Regeni nei suoi appunti. Li riporta in aula, tradotti dall’inglese, il colonnello dei carabinieri del Ros, Panebianco. Raccontano la sua attività di ricerca partecipata che svolgeva per l’università di Cambridge. «Ho incontrato un venditore ambulante che è stato gentile e mi ha offerto del tè. Vorrebbero dare un contributo alla società egiziana, essere riconosciuti e pagare le tasse. Tra loro non si fanno concorrenza».

Regeni nei primi mesi di permanenza, nell’autunno del 2015, visita i mercati, conosce gli attivisti e ricostruisce il funzionamento di un mondo informale, spesso oggetto dei soprusi delle forze dell’ordine egiziane. «Se uno si deve allontanare gli altri tengono d'occhio la merce. Sono molto in allerta per paura che la polizia possa sequestrarla. Quando un venditore all'inizio della strada ha avvisato dell'arrivo della polizia, sono fuggiti e si sono nascosti dietro una Moschea».

E proprio durante queste visite e questi incontri che Regeni entrerà in contatto con Mohammed Abdallah, il sindacalista che, secondo l’inchiesta, ha collaborato con gli agenti egiziani imputati nel processo.

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