«Come ti è saltato in mente di mettere in copertina il cazzo?». Conoscevo bene quella voce, la conoscevamo tutti, tremava di indignazione. Provai a difendermi: «Abbiamo fatto un ritratto dell’Italia che dice di no al razzismo e all’intolleranza...». Il numero in uscita dell’Espresso di cui ero direttore era davanti a me. C’era la foto di una manifestazione e una donna reggeva un cartello festoso, colorato, con la scritta a mano: «Buonisti un cazzo!». Mi aspettavo qualche reazione, ma non la sua, non di Eugenio Scalfari.

«Volevo mandare il numero a papa Francesco perché nella mia rubrica gli faccio una domanda su Dio e il tempo. Ma ho dovuto strappare la pagina e spedirgli solo quella. Non posso mandare al papa il cazzo!». Il laicissimo Scalfari mi stava spiegando che l’Espresso non avrebbe dovuto mettere una parolaccia in copertina per non turbare il pontefice. Mi veniva da ridere per la situazione surreale. E mi resi conto che un po’ veniva da ridere anche a lui.

Se n’è andato il giorno della presa della Bastiglia, di Liberté, Égalité, Fraternité, il suo credo. Mi rifugio in questo ricordo allegro per scacciare una monumentalizzazione che lo ha coinvolto negli ultimi anni, la sua trasformazione in un Santissimo in vita da venerare cui si disponeva con consumata professionalità: «Mi viene attribuito il difetto di essere vanitoso, ma non è un’ingiuria perché dovremmo definirci tutti come vanitosi. La vanità è voler emergere nella propria vita, nel lavoro, nella simpatia o nel fascino che riteniamo di ispirare nelle persone che desideriamo conquistare».

Arci italiano

Foto AGF

Ad affascinare di Scalfari erano le contraddizioni, le variazioni, il suo essere un illuminista romantico, mosso da passionalità spudorate, amori e odi travolgenti, fin da quando frequentava il gruppo dei liberali negli anni Cinquanta, «vitelloni con un pizzico di snob. Molto misogini. Molto voyeurs. Molto indolenti. Alquanto sciroccosi. Testardamente sedentari, sembrava non si fossero mai mossi da quella strada e da quei caffè», in via Veneto. In questo ha rappresentato un’Italia di minoranza, ma è stato un grande italiano. Anzi, un arci italiano.

Ho avuto modo di conoscere due Scalfari. Il primo, per me come per tanti della mia generazione, è stato da lettore il direttore che ha cambiato il modo di fare giornalismo, l’editorialista atteso ogni domenica, il fondatore che sulle sue pagine consentiva il dissenso, un diverso parere più ampio della rubrica di Alberto Ronchey, e lo sberleffo più aspro, come quando pubblicò nel 1977 una vignetta di Giorgio Forattini in cui veniva disegnato all'atto di spararsi da solo su un piede mentre le Brigate rosse gambizzavano Indro Montanelli.

Il secondo Scalfari l’ho conosciuto di persona più tardi, all’Espresso. Un uomo pacificato, felice, splendido con il girocollo azzurro, sottobraccio al fidatissimo Dario, a novant’anni passati sfogliava un giornale e coglieva l’incongruenza tra un occhiello, un sommario e un titolo.

L’ho visto condurre un’intervista (a Romano Prodi), prendeva poche righe di appunti, segnava su un foglietto singole parole da cui sarebbe nato un pezzo di molte migliaia di battute, con la conversazione ricostruita a memoria. E pensai alle interviste entrate nella storia: ad Aldo Moro, uscita postuma, nel 1978, e a Enrico Berlinguer nel 1981 sulla questione morale e la diversità del Pci.

Due colloqui in cui i protagonisti erano gli intervistati, ma soprattutto l'intervistatore. Che interpretava la musica d'altri a modo suo, come fa un grande direttore d’orchestra.

Se Eugenio Scalfari è stato nonostante l’ispirazione repubblicana il re del giornalismo, verrebbe voglia di citare – alla Scalfari – Ernst Kantorowicz e il doppio corpo del Re, in cui convivono immortalità e caducità: il corpo naturale che invecchia e muore, il corpo politico del regno e dello stato che, a differenza di quello fisico, non muore mai.

Così scrisse anche lui al momento di lasciare la direzione del giornale, nel 1996: «La Repubblica una e indivisibile». E in quel momento aveva ragione. Ma infine con lui il destino è stato diverso. Il suo corpo mortale ha avuto una lunghissima esistenza. Il corpo del suo giornalismo e delle testate da lui fondate è finito prima.

Gli inizi

Foto AGF

Tutto era partito da quell’indirizzo. Via Po 12, quattro stanze, più una toilette e un altro stanzino, finestre al piano terra che davano sulla strada, era il 22 settembre 1955, si preparava il primo numero del nuovo settimanale: L’Espresso.

«Eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo. Sembrava di partecipare al varo d'una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza, forma e dimensioni e strutture», scrisse Scalfari che era direttore amministrativo e redattore per l'economia. In quel momento aveva 31 anni, aveva lavorato a Milano alla Banca commerciale e collaborato con il “Mondo” di Mario Pannunzio.

Una mattina mi raccontò di quando Raffaele Mattioli («un banchiere rinascimentale, in un capitalismo irrimediabilmente piccolo-borghese era un grande borghese», scrisse di lui al momento della scomparsa, nel 1973) lo rispedì a Roma: «Mi diede una piccola cifra al mese per scrivergli due paginette su quanto avveniva nella Capitale. Una specie di borsa di studio, mentre io trovavo la mia strada, lavoravo con Arrigo Benedetti al progetto di un nuovo giornale».

Doveva essere un quotidiano, tra i finanziatori erano stati individuati Enrico Mattei e Adriano Olivetti, ma il progetto era dispendioso, si cambiò obiettivo. «Chi non è del mestiere non può sapere quale sia il fascino artigianale di costruire il menabò d’un nuovo giornale. E chi pensa che il momento decisivo della fondazione d'un giornale sia la linea politica che esso avrà, prende un abbaglio grosso. Lo prendono spesso, almeno in Italia, perfino gli editori, che in realtà, nella maggioranza dei casi, non sono dei veri editori; sicché danno assai poca attenzione alla costruzione del menabò e molta di più al progetto politico. Per nostra fortuna, noi eravamo cresciuti ad un'altra scuola. Per noi i problemi della linea politica e la struttura editoriale del prodotto facevano tutt’uno».

Il palazzo è vuoto

Menabò e progetto. Politica e innovazione editoriale. Sono state le due chiavi del successo di Scalfari. Un ircocervo, un soggetto fantastico, «una figura dimezzata o trimezzata, nella quale confluiscono i requisiti del giornalista, dell'imprenditore, dell'uomo politico».

Tanti anni dopo, nel 1990, Scalfari usò questa definizione di sé –così come Craxi si era impossessato del soprannome di Ghino di Tacco, invenzione scalfariana – per dichiarare guerra all’uomo che per conto del potere politico voleva comprare Repubblica e Espresso: Silvio Berlusconi.

A Scalfari il paragone con il mostro piaceva tantissimo. Ricordava che la stessa sorte era toccata ad Alfredo Frassati alla Stampa, Luigi Bergamini al Giornale d'Italia, Luigi Albertini al Corriere della Sera durante il fascismo e si inseriva tra quei grandi direttori: «Non c'è da stupirsi se la Repubblica sia diventata una posizione da espugnare e il suo trimezzato direttore un personaggio da togliere di mezzo», scriveva in un pezzo storico, dedicato ai tanti brechtiani Mackie Messer con il coltello in mano della storia italiana.

Sulla prima pagina del primo numero di Repubblica, il 14 gennaio 1976, un mercoledì, il primo editoriale non firmato era intitolato: «È vuoto il palazzo del potere».

Un manifesto programmatico. In quella metà degli anni Settanta il palazzo appariva vuoto, mentre la società sembrava ricca di istanze, con una sinistra forte, impetuosa, il Pci si sentiva a un passo dalla conquista del potere. Serviva qualcuno che rappresentasse il nuovo che si candidava a riempire il vuoto.

«Ci rivolgiamo alla classe dirigente di domani, quella che ha vinto il referendum sul divorzio e le elezioni del 15 giugno. Una classe dirigente di massa. Con un’unica edizione nazionale, fruibile da Milano a Palermo», aveva detto Scalfari a Luigi Pintor in un dialogo sull’Espresso anticipando l’uscita di Repubblica.

«Il nostro pubblico è molto giovane, due terzi dei lettori non superano i trent’anni, le donne ne costituiscono una notevole percentuale», scrisse tre settimane dopo l’uscita del primo numero. «La Repubblica ha una sua chiave di lettura dei fatti che non coincide con quella di questo o di quel partito».

Scalfari si proponeva di colmare il vuoto con l’intuizione geniale di fornire alla neoborghesia progressista quello che non aveva mai avuto: un racconto, una mitologia, un riconoscimento. Mancava un'identità e Scalfari l’avrebbe costruita, non solo indicando i partiti e i singoli politici, ma i libri da leggere, i film da vedere, le polemiche da celebrare.

Era un’operazione molto più ampia della nascita di un nuovo giornale, era la creazione di un pubblico, di un lettore: l’homo Republicanus, il lettore di Repubblica. Con uno strumento inedito: un giornale nuovo, con un formato, una grafica e un’impaginazione mai vista, il primo piano, la cultura e l’economia al centro. Un quotidiano nazionale con sede nella capitale, come mai era successo nella storia d'Italia, collocato nel cuore della politica e del palazzo disabitato, che sarebbe stato riempito di personaggi, idee, suggestioni. La politica e l’economia: il Tesoro e la Banca d’Italia.

Un pezzo di establishment aveva finalmente trovato la sua voce. E anche quel pezzo di movimento, raccontato sulle pagine di Repubblica da Carlo Rivolta, che negli anni Settanta affollava le piazze e che negli anni Ottanta-Novanta sarebbe diventato il nuovo potere.

Il partito di Repubblica

Foto AGF

Il giornale, infatti, faceva partito a sé. Eccolo qui, il partito di Repubblica. Con i giornalisti, gli intellettuali, «profondamente organici al gruppo di cui erano parte».

I compagni di strada, i collaboratori: Andrea Manzella, Giorgio Ruffolo, Alberto Asor Rosa, Pietro Scoppola, Gianni Baget Bozzo. Gli alleati nel Palazzo della politica: il comunista Enrico Berlinguer, il democristiano Ciriaco De Mita, il segretario del Pds Achille Occhetto, il referendario Mario Segni, l'ulivista Romano Prodi. E i nemici, che per il quotidiano di Scalfari valevano come bandiera più degli amici: Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi.

Quasi sempre il partito Repubblica è stato sconfitto nelle urne: esemplare nel 1983 il crollo della Dc di De Mita appoggiata da Scalfari, che precipitò al 32 per cento e perse due milioni di voti. Ma in edicola invece conquistò il primato, in dieci anni superò il Corriere della Sera, il capolavoro di Scalfari.

E aumentò il suo peso politico, man mano che il vuoto si allargava e il sistema si inceppava. Fino ad conquistare la leadership di un bipolarismo che negli anni Ottanta ancora non esisteva in Parlamento, ma che aveva trovato due formidabili catalizzatori mediatici. Sul fronte conservatore e anti-comunista la Fininvest di Berlusconi, sul lato della sinistra la Repubblica di Scalfari.

Per questo nel 1990 la guerra di Segrate per il controllo del gruppo Mondadori fu così violenta. Quando Berlusconi riuscì ad assumere il controllo del gruppo, Scalfari replicò con una dichiarazione di guerra. «Berlusconi cercò Scalfari. Ma Scalfari non c'era», raccontò Pansa che nella prima Repubblica di Scalfari era il vice con Gianni Rocca.

«Le nostre segretarie gli dissero: “C’è Rocca”. Berlusconi alzò le spalle. “C’è Pansa”. Rifiutarono anche me, con energia. “Vogliamo Scalfari!”. Ma il dannato Scalfari era finito chissà dove». Ci fu un incontro, nella casa romana di Gianni Letta: diamoci del tu, perché non riesco a fare una trattativa se ci diamo del lei, disse Scalfari al Cavaliere.

Finì malissimo, con la minaccia di fare un nuovo giornale se Berlusconi si fosse impadronito di Repubblica. E poi un altro faccia a faccia, controverso, ad Arcore, con Fedele Confalonieri al piano che suonava “Rhapsody in Blue” di Gershwin. Con Scalfari c’era sempre Carlo Caracciolo. E alla fine Repubblica e l’Espresso restarono all’editore che aveva acquistato il gruppo, Carlo De Benedetti.

Da Berlusconi a Draghi

Foto AGF

Le tv commerciali del Cavaliere presero nel 1994 le fattezze del partito Forza Italia, il popolo di Repubblica dovette invece attendere a lungo la nascita del Partito democratico. Quando il Pd finalmente arrivò era troppo tardi, anche Walter Veltroni, tra i prediletti di Eugenio, perse le elezioni nel 2008 e ben presto anche la segreteria.

I lettori di Scalfari intanto erano cresciuti, erano andati al potere, erano diventati classe dirigente. «Questa è dunque la scommessa del 5 aprile: abbattere le porte del kafkiano Castello del potere e farvi entrare il popolo sovrano», scrisse il direttore di Repubblica alla vigilia del voto del 1992.

Nello scalfarismo il desiderio di rivoltare il sistema aveva sempre convissuto con l’ambizione di esserne l’architrave. Ma le due aspirazioni non si potevano più tenere insieme. Il vuoto e il nuovo si assomigliavano drammaticamente, coincidevano. Quando le porte si sono aperte si è scoperto che il popolo entrato nel palazzo non sventolava gli editoriali di Scalfari, ma le bandiere della Lega, e poi di Berlusconi, e infine del Movimento 5 stelle.

Repubblica aveva indicato la politica come il terreno privilegiato del cambiamento, ma la società cui ha dato rappresentazione si è gonfiata di rivendicazioni, proteste, pulsioni distruttive, si è capovolta nell'onda dell'anti-politica. Un processo che ha spinto l'ultimo Scalfari a compiere la contraddizione estrema, «tra Berlusconi e Di Maio scelgo il primo», disse nel 2018. Ma forse oggi correggerebbe il giudizio.

Nella crisi del sistema i punti di riferimento di Scalfari sono cambiati: non più i capi dei partiti, ma i vertici istituzionali, i presidenti della Repubblica. Sandro Pertini, amichevole e conflittuale il rapporto con Francesco Cossiga affidato all'amico di sempre Luigi Zanda, e poi Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, infine Sergio Mattarella, con la stagione a palazzo Chigi di Mario Draghi, confidente di Scalfari negli anni del Tesoro, Banca d’Italia e Bce, com’erano stati prima di lui Guido Carli, Paolo Baffi e Ciampi. L’ultimo vero editoriale di Scalfari è stato scritto dopo la rielezione di Mattarella, per celebrare i due presidenti, «due uomini nei posti giusti».

Imitare Scalfari

Dell’Italia a cavallo dei due secoli la Repubblica di Scalfari è stata un potente fattore di modernità. Il foglio di una generazione che voleva partecipare e contare. Con un’idea di giornalismo non subalterno ad altri poteri, un giornalismo che non è un barometro o un semaforo, non si limita a registrare le posizioni, ma ha l'ambizione di interpretare l’opinione pubblica e a volte di anticiparla, ha l'obiettivo di incidere.

Ecco perché tutti i direttori hanno tentato di imitare Scalfari, senza riuscirci, come Scalfari nessuno mai. Ecco perché la sua scomparsa arriva dopo che il suo mondo e quel giornalismo sono finiti, anche se trova riparo nell’auto-citazione e nel conformismo. La morte di Scalfari coincide con la vendita dello storico Espresso, la radice da cui partì tutto, una casualità altamente simbolica.

Quel sistema di partiti e di poteri non c'è più, il palazzo ora è vuoto davvero e non richiede i giornali e le imprese editoriali che lo interpretino. Ma imprese editoriali che restano senza cultura, senza un’idea di paese, senza ascolto di un pubblico, che abdicano al loro ruolo, che non vogliono incidere sulla realtà, che scambiano l'innovazione con le operazioni di marketing e l'influenza con gli influencer, indeboliscono il dibattito pubblico e rendono la democrazia più fragile.

Negli ultimi tempi Eugenio si era allontanato dalla attualità che lo aveva sempre nutrito. Si era concentrato su di sé, sul proprio io. I colloqui con papa Francesco. Le confidenze alle figlie Enrica e Donata.

La poesia e il ritorno all’infanzia, alla casa di Civitavecchia dove era nato: «Da quella finestra/ cominciò la mia vita / la mia memoria, la mia malinconia/ e anche il mio risentimento/ e la voglia di compensare/ non so quale torto subito».

Il suo corpo mortale non c’era quasi più, il corpo del mondo da lui creato stava svanendo. Restava a danzare leggera l’anima dell'Ircocervo, «che, come tutti gli animali mitologici, ha una stranissima proprietà: ogni volta che gli tagliano la testa, quella testa rinasce di nuovo», aveva scritto nel momento più difficile, quando aveva dovuto difendere la sua creatura, il suo giornale. «Chissà come andrà questa volta». Sì, chissà come andrà.

© Riproduzione riservata