Non c'è tre senza tre. Il percorso fin qui netto della nazionale di Roberto Mancini agli Europei sollecita a rivedere i motti. Sicché, dopo due 3-0 consecutivi, la fantasia popolare viaggia verso l'ipotesi del tris integrale: 3-0 x 3, fine del senso della misura. È il mood di queste ore azzurre, dopo che la Svizzera s'è vista riservare la medesima sorte della Turchia e il delirio nazional-pallonaro ha smesso di tracimare per il semplice fatto che l'argine non c'era mai stato.

Questa nazionale è arrivata alla competizione circondata da un'aura di fiducia che non s'era mai vista. Non sembra nemmeno la nazionale italiana, vista la totale assenza di tensioni intorno alla squadra e al commissario tecnico. Cosa che in una fase finale di Europei o Mondiali sa di alieno. Una condizione innaturale per la quale non si trovano regole d’ingaggio. Non le trovano nemmeno coloro che per mestiere raccontano le imprese di questa squadra e un minimo di limite dovrebbero darselo per dovere d'ufficio. E invece no, anche loro s'industriano a spiegarci che abbiamo appena iniziato a viaggiare dentro una nuova età dell'oro e dunque certe ubbie andrebbero eliminate per impeto patriottico.

Voi non capite

A questa missione speciale si è iscritta la banda della Rai. Che durante la partita e dopo ha insistito col mantra «badate che la Svizzera è una buona squadra e anche la Turchia non era male, eh?». Tutto un insistere sul valore degli avversari piegati, che proprio perché battuti in modo così netto rischierebbero di far diffondere un messaggio fuorviante: che in fondo non fossero poi dei grandi ostacoli, dunque dovremmo un attimo ridimensionare la portata dei successi della nazionale azzurra.

Invero, questa è una tara che la nazionale di Mancini si porta sin dall'inizio. Più vince, più sente nell'aria il murmure che recita: «Sì, ma aspettiamo avversari più seri». All'inizio della gestione del tecnico jesino, gravata dallo shock dell'eliminazione dai mondiali di Russia 2018 lasciato in eredità da Giampiero Ventura, questo retropensiero era inevitabile. Adesso però comunica qualche segno di stucchevolezza e contro ciò le truppe Rai si sono mobilitate nella serata di mercoledì.

Nel post-partita il telecronista Alberto Rimedio ha detto addirittura che avrebbe voluto giocare Italia-Galles già l'indomani per scacciare via quest'ombra, come se fosse prosciugare lo stagno alle zanzare. Meraviglioso zelo. Pure a rischio di essere inutile, perché cosa volete che sposti battere il Galles? Alla vigilia della competizione la nazionale allenata da Robert Page veniva indicata come la più scarsa del girone, dunque figurarsi quanto il batterla possa spostare l'opinione. E comunque non è nemmeno una questione di avversari da battere. Piuttosto c'è di mezzo un tratto antropologico che soltanto chi vive assiduamente il calcio può capire: la questione della scetticanza.

Antropologia della scetticanza

Ci si perdoni il neologismo, ma il fatto è che quella cosa lì non è semplicemente scetticismo. Quest'ultimo è un atteggiamento di vigile auto-protezione contro i fuorvianti entusiasmi, o in generale di dubbio sistematico verso la realtà, dunque essenzialmente un meccanismo salvavita dotato di una sua nobiltà intellettuale e filosofica. Invece la cosa che chiamiamo scetticanza è un cinismo a bassa intensità che anche davanti alla più alta dimostrazione di magnificenza porta a reagire facendo spallucce e sussurrando: «Sì, però...».

Chi mette sistematicamente in campo la scetticanza non è un fomentatore di dialettiche. Piuttosto, uno che borbotta dal fondo della sala bar mentre sorseggia la birra sgasata dopo lunga permanenza sulla seggiola. «Sì, però...». E poi se ne rimane lì dopo avere incrinato le certezze altrui. E il bello è che cinque minuti dopo non ricorderà nemmeno perché avesse proferito: «Sì, però...». Tanto lo fa di default, quale che sia il tema.

Veramente i soldati Rai vogliono combattere la scetticanza? Tempo e energie a vuoto. Che poi, a dirla tutta, la Turchia ne ha perse due su due con zero gol fatti e cinque subiti, mentre la Svizzera si è fatta prendere a pallonate non soltanto dagli azzurri ma anche dai gallesi. E ora che abbiamo dato il nostro contributo alla scetticanza possiamo ritirarci al nostro tavolo del bar.

Locatelli fa le cose per bene

A ogni modo, fra i tanti elementi del racconto positivo c'è anche la retorica dell'abbondanza. Che dall'inizio dell'Europeo azzurro ha un nome e un cognome: Manuel Locatelli. Titolare per caso ma ora inamovibile. Uno dei tanti motivi di discussione in questi giorni è: uscirà di squadra quando tornerà a essere disponibile il titolare Marco Verratti? La risposta più intelligente l'ha data il compagno di reparto Nicolò Barella: «Magari va a finire che esco io». La quotazione del calciatore è in ascesa e la scelta del Sassuolo di discutere la sua cessione soltanto dopo gli Europei si è rivelata lungimirante. Ma lasciate da parte il confronto con Tardelli, che per altro nei mesi scorsi aveva ossessionato anche Barella. Lui è Locatelli e avrà molte cose da dire da qui in avanti senza ritrovarsi costretto nei paragoni.

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