All’inizio, almeno nel nome, sembravano avere un loro senso. Furono istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano e si chiamavano Cpta, acronimo di Centri di permanenza temporanea e assistenza. Col tempo hanno cambiato sigla e assunto un tono sempre più simbolico dell’aria che si respira nel paese attorno al tema immigrazione diventando Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e infine Cpr (Centri per il rimpatrio).

Sono le dieci famigerate strutture di “accoglienza” temporanea dove finiscono cittadini di nazionalità esterne all’Unione Europea senza aver commesso alcun reato, per il semplice fatto di essere sprovvisti di documenti validi alla permanenza in Italia. E ci rimangono, con limitatissime possibilità di ricevere visite, di essere informati dei loro diritti, in molti casi senza neanche aver capito bene per quale motivo ci siano capitati, fino a 120 giorni. Dietro a inumanità, illegalità e spesso violenza, nascondono anche inefficacia.

Pochi rimpatri

«Il primo compito dei Cpr sarebbe riportare in patria chi ha un procedimento di espulsione ma le operazioni effettuate nel 2021», rivela Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, «sono meno del 50 per cento, se prendiamo il dato delle donne, scendiamo al 13 per cento. I motivi di questi scarsi risultati sono diversi, allontanamento arbitrario (1,14 per cento), arresto all’interno del Cpr (1,11 per cento), dimissioni per mancata identificazione (16,62 per cento), fermo non convalidato dall’autorità giudiziaria (15,64 per cento), c’è un 2 per cento scarso di richiedenti protezione internazionale e altri».

Palma poi aggiunge che «se si priva delle libertà un individuo per rimpatriarlo verso un paese con cui l’Italia non ha stipulato accordi o, come dal marzo del 2020 fino a poco fa, in un periodo in cui gli aeroporti sono chiusi, ogni legittimità decade, i Cpr sono il trionfo delle criticità. Per i penitenziari esiste una legge con molte declinazioni, per i Cpr c’è un regolamento scarno senza controllo parlamentare»

Il presidente del Garante spiega, per esempio, che in alcuni centri l’uso del cellulare è permesso a tempo, in alcuni si bucano le fotocamere per evitare che i detenuti riprendano, in altri ancora non è permesso affatto. Inoltre, dice Palma, «c’è poi un altro grosso problema, i giudici che si occupano della convalida del trattenimento, sono onorari non togati, senza competenza né esperienza. Non ci sono i registri, non c’è quindi traccia di attività di custodia  a differenza di quanto avviene in carcere».

Milioni per gestirli

Una questione enorme, inoltre, è rappresentata dai costi. Come riporta la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), nell’ultimo triennio per la gestione appaltata a soggetti privati dei 10 Cpr sono stati spesi circa 44 milioni di euro. Per riportare in patria un soggetto, poi, si spende un patrimonio a causa dell’abnorme meccanismo di controllo: in una recente operazione per rimpatriare 19  tunisini, tra scorta, personale medico e altre figure, sono partiti in 80.

Al momento, dislocati in dieci città d’Italia gli internati sono 438, tutti uomini. Risiedono in strutture che già dalla loro architettura comunicano repressione.

«Sono gabbie senza anima», denuncia Daniela De Robert componente del collegio del Garante, «luoghi ‘non pensati’, depositi di oggetti, all’interno non c’è mobilio per evitare che venga utilizzato per atti di violenza, i letti, gli armadi, sono tutti ricavati dalle pareti. I bagni sono in condizioni deprecabili, in alcuni centri sono senza porte, non esistono tavoli, si mangia in piedi, non ci sono punti di aggregazione, attività sportive. Sono ‘non luoghi’ che favoriscono una nullificazione della persona».

Le regolari visite svolte dal personale del Garante hanno evidenziato in tutte le strutture enormi carenze nella presa in carico della salute psicofisica. Nel Cpr di Torino, dopo il suicidio del 23enne guineano Moussa Balde, finito lì perché, stramazzante al suolo dopo una gravissima aggressione a Ventimiglia, era stato pescato senza permesso di soggiorno, si è scoperto che il servizio di assistenza psichiatrica, obbligatorio, era sospeso da mesi.

Divieto di accesso

L’impostazione generale dei centri, già bene evidenziata dalla scelta dell’allora ministro dell’interno Maroni di vietare alla stampa l’accesso «al fine di non intralciare le attività» è quella di isolamento pressoché totale dall’esterno, al riparo da sguardi indiscreti. Anche da questo punto di vista, la permanenza al Cpr risulta molto peggio che in un carcere.

Le visite sono limitatissime, al di là dello staff del Garante e di parlamentari che hanno accesso diretto, per tutti gli altri, entrare è complicatissimo. Ovunque  accedono poche associazioni accreditate, tra queste, nel cpr di Roma, BeFree.

«I centri sono il simbolo delle politiche restrittive della fortezza Europa», spiega Francesca De Masi, vice presidente di BeFree, che precisa: «Come dimostrano alcuni studi, dal momento in cui l’obiettivo del rimpatrio viene in gran parte disatteso, sono mantenuti in vita per il loro valore simbolico, hanno funzioni di deterrente e terrorismo psicologico. Noi entravamo (dall’inizio della pandemia la sezione femminile è chiusa ndr) al fine di fornire consulenza alle donne vittime di tratta, ci capitava di incontrare ragazze che si erano rivolte alla polizia per denunciare violenza o sfruttamento e che, poiché non avevano documenti in regola, venivano spedite al Cpr. Peccato che la legge preveda l’ottenimento del permesso di soggiorno automaticoper vittime accertate di traffico o violenza».

I Cpr oltrea  a fallire l’obiettivo primario, il rimpatrio, ledono diritti, disattendono leggi, sono buchi neri che sfornano illegalità e crudeltà ad altissimi costi. Cosa si può fare per migliorare la situazione?

«Chiuderli e ripensarli completamente», è perentorio Palma. «nessuno crede che lo strumento del rimpatrio vada abolito, in alcuni casi può ritenersi necessario. Ma non può essere questo il modo per gestirlo. C’è bisogno di immaginare strutture più piccole, aperte e non ostili all’esterno, dove si valutino i casi con interventi mirati e abbiano costi sostenibili».

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