- Le dieci strutture di “accoglienza” temporanea dove finiscono i cittadini non europei sprovvisti di permesso di soggiorno sono dei non luoghi, che favoriscono la nullificazione delle persone.
- «I bagni sono in condizioni deprecabili, in alcuni centri sono senza porte, non esistono tavoli, si mangia in piedi, non ci sono punti di aggregazione, attività sportive».
- Una questione enorme, inoltre, è rappresentata dai costi. Come riporta la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild), nell’ultimo triennio per la gestione appaltata a soggetti privati dei dieci Cpr sono stati spesi circa 44 milioni di euro.
All’inizio, almeno nel nome, sembravano avere un loro senso. Furono istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco-Napolitano e si chiamavano Cpta, acronimo di Centri di permanenza temporanea e assistenza. Col tempo hanno cambiato sigla e assunto un tono sempre più simbolico dell’aria che si respira nel paese attorno al tema immigrazione diventando Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e infine Cpr (Centri per il rimpatrio). Sono le dieci famigerate strutture di “accoglienza”



