Nel comporre una mappatura dell’Italia sulle aree “a rischio femminicidio” si può partire da un dato certo: non esistono quelle in cui l’indicatore è zero. Le radici sistemiche e strutturali ne fanno un fenomeno pervasivo, che non conosce latitudine, classe e provenienza. Un’analisi territoriale dei casi di femminicidio e dei servizi antiviolenza però può essere uno strumento fondamentale per comprendere meglio il problema e orientare le politiche pubbliche di prevenzione e contrasto.

È quello che ha fatto lo studio Femicides, Anti-Violence Centers, and Policy Targeting, condotto da quattro ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università Sapienza di Roma: Augusto Cerqua, Costanza Giannantoni, Marco Letta e Gabriele Pinto.

Lo studio 

«La lotta contro la violenza di genere sta diventando sempre più centrale nell’agenda politica, ma l’attuazione di strategie efficaci richiede sforzi maggiori», si legge nella ricerca. Tuttavia, «l’eliminazione dei femminicidi e, più in generale, della violenza di genere rimane un compito arduo, a causa della complessità intrinseca del problema, ma anche della consapevolezza e comprensione incomplete delle cause profonde, dei fattori di rischio e delle potenziali soluzioni politiche specifiche per questo problema sociale».

L’analisi, presentata in Senato per iniziativa della senatrice Pd e vicepresidente della commissione femminicidio Cecilia D’Elia, parte da una mappatura del rischio a livello locale. Utilizzando dati territoriali e modelli machine learning (Ml), è stato compilato e analizzato un dataset su 1.942 casi di femminicidio in Italia relativi al periodo 2006-2022. Ogni caso è stato geolocalizzato, inserendo nell’analisi variabili socioeconomiche, demografiche e territoriali.

Dalla mappatura emerge che ci sono zone che sono più esposte al rischio femminicidi: non contesti marginalizzati, periferici o isolati, ma quelli in cui l’emancipazione femminile è più elevata.

Si tratta, ha spiegato la ricercatrice Costanza Giannantoni, di un risultato «in linea con la “teoria del backlash”, per cui gli uomini reagiscono a una maggiore emancipazione femminile con episodi di grave violenza».

Un andamento che non vede differenze rilevanti in termini di reddito, livello di istruzione o di occupazione. E la misoginia non registra alcuna disparità netta nemmeno tra nord e sud del paese.

La presenza dei Cav

La ricerca si è concentrata anche sulla raccolta di dati sulla posizione e sui tempi di apertura di tutti i Centri antiviolenza (Cav) locali. Quello che viene fuori è che la distribuzione dei centri rispecchia solo in parte quella delle aree individuate come a maggior rischio, mentre le nuove aperture non avvengono laddove la mappatura rileva che ci sarebbe maggior urgenza di questi presidi.

Secondo il team di ricerca, questo dipende dal fatto che la loro distribuzione è quasi sempre spinta dall’attivismo dal basso, mentre, suggeriscono, potrebbe seguire «un piano nazionale di copertura basato su evidenze», distribuzione territoriale e fattori di rischio.

In ogni caso, i Cav emergono come presidi fondamentali nell’emersione della violenza: sebbene l’analisi non rilevi un effetto rilevante tra nuove aperture di centri e femminicidi, si riducono significativamente gli episodi di violenza sessuale. «Questi risultati suggeriscono che vi è ampio margine per migliorare la miratezza e l’efficacia degli interventi di politica pubblica volti a combattere la violenza contro le donne», si legge nella ricerca.

«Nel 2023 questo paese è stato attraversato da un’onda determinata in particolare dal femminicidio di Giulia Cecchettin, che ha portato a una lettura corretta: non si richiedeva semplicemente punizione, ma di sconfiggere la cultura della violenza», ha affermato la senatrice D’Elia durante la presentazione della ricerca. «A quell’onda, però, non è corrisposto un salto di qualità delle politiche».

Per la vicepresidente della commissione femminicidio, la presenza dei Centri antiviolenza va rafforzata, preservando la loro autonomia e la loro provenienza dal movimento delle donne. Ma va anche fatto uno sforzo di programmazione, mettendo a regime il Piano strategico nazionale per combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica.

Oltre al potenziamento e alla diffusione dei Centri antiviolenza, però, l’analisi dei ricercatori della Sapienza auspica che si faccia di più: «Queste strutture di supporto locali dovrebbero essere integrate con programmi innovativi mirati specificamente ai modelli di comportamento maschili e alle cause profonde della violenza di genere».

In questo modo, si sfrutterebbero «i punti di forza delle reti di sostegno locali» affrontando allo stesso tempo «i fattori sistemici che perpetuano le forme più estreme di violenza di genere».

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