Il 2023 si è aperto con la pubblicazione dei dati di Altroconsumo sull’aumento del costo del pane: negli ultimi dieci anni, i prezzi di panini e pagnotte sono saliti di oltre il 50 per cento.

L’analisi ha preso in esame un campione di 134 punti vendita in 10 città italiane, ammettendo panetterie e supermercati, per dimostrare come al di là dell’impennata dell’inflazione degli ultimi mesi la tendenza all’aumento del costo dei panificati sia una progressione costante nel tempo, e come anche in virtù di questo dato l’acquisto di pane presso la grande distribuzione – più economica – abbia finito per essere preferito alla spesa in panetteria.

Ma se è giusto stigmatizzare il rischio che il pane, da bene primario quale dev’essere, si trasformi in prodotto di lusso – pur evidenziando come il canale di vendita possa fare la differenza non in termini di prezzo, ma di qualità: rivolgersi a un panificio artigianale significa scegliere un prodotto non solo più buono e più sano, ma in grado di conservarsi più a lungo, più caro all’origine, ma più conveniente in termini di shelf-life, e meno soggetto allo spreco – stupisce constatare quanto polemizzare sull’aumento dei prezzi e sul calo dei consumi abbia finito per mettere in ombra una questione ben più rilevante. Quando il pane ha smesso di generare ricchezza?

Il pane genera ricchezza

Nella cultura contadina la filiera del pane alimentava un’economia di territorio vitale non solo in termini di riscontro monetario, ma anche di dinamiche sociali, creando occupazione e aggregazione intorno a valori identitari di comunità.

Oggi può (r)esistere questo modello? La risposta è sì. E l’esempio che citiamo si può considerare, nel senso più positivo del termine, una storia tipicamente italiana, dunque replicabile. Il Forno di San Leo, che prende il nome dal borgo omonimo dell’entroterra riminese, nasce nel 2021.

O meglio rinasce, per iniziativa della Cooperativa di Comunità Fer-Menti Leontine (nell’ambito dell’incubatore Appennino Lab), sulle ceneri del vecchio forno di paese, nel centro storico raccolto intorno alla fortezza “aggrappata” su uno dei greppi calcarei della Valmarecchia. Un luogo di grande suggestione paesaggistica e artistica, non per questo immune allo spopolamento.

E allora, per rifondare l’economia locale e così rinsaldare il tessuto sociale, un gruppo di residenti ha deciso di riaprire il laboratorio-bottega del pane chiuso dal 2018.

Il Forno di San Leo

Il nuovo progetto si è però alimentato di idee innovative, per privilegiare il rapporto con i fornitori del territorio, e dunque rilanciare la filiera delle farine locali macinate a pietra, per aggiornare le ricette della tradizione su lavorazioni naturali (lievito madre e lunga fermentazione), per – non meno importante – perseguire la sostenibilità sociale, sfruttando la tecnologia per consentire allo staff di lavorare durante il giorno, senza sottoporsi a orari massacranti.

Oggi il Forno, sotto la gestione di una comunità che ha trovato un motivo valido per riscoprirsi unita, dà lavoro a un gruppo affiatato di giovani del posto, è tornato a rifornire i ristoranti locali, ha esteso la sua rete di distribuzione a diverse piccole attività regionali, accoglie chi visita la rocca di San Leo con pagnotte di farina integrale, bauletti di farro e avena, baguette rustiche con farina tipo 0, grissini, pizza, focacce, crostate, biscotti, ma anche specialità legate alla cultura popolare romagnola, come la piada dei morti.

E nulla è lasciato al caso, dal logo ai grembiuli del team, che valorizzano l’artigianato romagnolo. Perché il pane, come spiega la cooperativa, è un incentivo alla civilizzazione. A San Leo non è più il pane di una volta. Ma del passato si è scelto di raccogliere con intelligenza l’eredità.

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