Uno dei più grandi lasciti di Gianni Brera è stato quello di averci fatto vivere l’epica dello sport, raccontando l’atleta e il suo impegno morale nei confronti di se stesso e del suo Paese, come se ne fosse un rappresentante ideale, permettendo a chi lo guarda di identificarsi quasi spontaneamente in lui.

Una conseguenza naturale, perché l’atleta incarna alcuni istinti fondamentali dell’essere umano. È così che lo sportivo viene elevato al rango di divinità, quasi mitizzato: dalla penna di Brera escono allora espressioni come “rombo di tuono”, per indicare la potenza fisica e il sinistro implacabile di Gigi Riva.

E si va a costruire il cosiddetto “calciolinguaggio”, l’insieme di parole ed espressioni coniate per quello che lui ha definito “il più bel gioco del mondo”, molte delle quali sono entrare del nostro vocabolario comune (per esempio “centrocampista” o “goleador”).

E se da una parte calciatori e sportivi vengono elevati, dall’altra se ne mostra l’umanità, alternando esaltazione e presa in giro: il rossonero Gianni Rivera, infatti, passerà alla storia per il più grande “abatino” di tutti i tempi, dotato di talento ma di scarsa prestanza atletica. 

Racconti giovanili

Un’umanità sempre stata presente nelle opere di Brera, anche quando non parlava di sport. Anche quando era un ragazzo con poca esperienza e si dilettava nella scrittura. Tra i suoi primi lavori di gioventù spuntano quattro racconti inediti, raccolti nel volumetto Dalla Bassa che nel 2019, per il centenario della nascita del giornalista e scrittore, Slow Food Editore ha inserito nella collana Piccola biblioteca di cucina letteraria. Il 19 dicembre 2022, invece, saranno 30 anni dalla sua scomparsa, avvenuta per un incidente automobilistico.

Racconti che parlano della sua grande passione, quella per il cibo e per l’umanità che circonda la tavola. L’umanità del signor Tobia che «quando ha mangiato si batte la pancetta con soddisfazione e va a sedersi al caffè» o della signorina Clelia che «era una santocchia. […] Portava di gran polli al prete, perché pregasse per lei. […] E il reverendo pigliava i polli e la compassionava».

Un fine esercizio di prosa prima di rivoluzionare il giornalismo sportivo e donare al calcio un vocabolario tutto suo, un tesoretto che mostra già il talento di Brera e la sua naturale propensione per mangiare, per bere e per raccontarlo. 

La Pacciada con Veronelli

Mangiare e bere, due concetti inevitabilmente connessi per lui, che ne fanno uno solo: la tavola è cibo, è vino, è storie, è persone. È “mangiarebere”, l’ennesimo termine dell’universo breriano in cui si fondono stile alto e basso, latino, dialetto, che fa da sottotitolo al libro del 1973, La Pacciada, scritto a quattro mani con un altro maestro, Luigi Veronelli.

Da San Zenone al Po, paese natale di Brera, dove passa l’infanzia e dove - come racconta il figlio Paolo - nove su dieci abitanti coltivano la terra come occupazione principale, alle trasferte in giro lungo la Penisola e la Francia a seguire il Giro o il Tour. Se in gioventù, nonostante i pochi mezzi a disposizione (il risotto coi fagioli era il pasto di casa), inizia a formare la sua cultura gastronomica, è andando avanti con la professione che allarga gli orizzonti e nutre la sua curiosità, conosce la cucina italiana e francese, mangia in tanti ristoranti (non è una novità che i primi critici del settori siano stati i giornalisti sportivi in trasferta), frequenta un corso da sommelier. E dopo aver conosciuto e apprezzato, torna a rivolgere lo sguardo alla terra natìa, l’Oltrepo Pavese, quella Bassa dei racconti giovanili, che ritroviamo sempre nei suoi lavori, come un sostrato imprescindibile.

La Pacciada, cioè la mangiata, l’abbuffata, è un titolo volutamente dialettale, scelto da Brera: il collega snocciola scrupolosamente le ricette della tradizione culinaria della Pianura Padana, tra rane fritte o in zuppa, sbrofadei e cassœula; lui invece regala racconti sull’atmosfera che si respirava nelle tipiche osterie lombarde, aneddoti sulla pesca dello storione sul Po e sull’invenzione della polenta «che aiuta a saziare la fame», e poi riti contadini, come le dettagliate righe sull’uccisione del maiale. «Mangiarebere può essere un’arte, come sostengono alcuni, ma è soprattutto una necessità», scrive, e da bravo artigiano delle parole racconta questa necessità, che influenza e quasi definisce la vita delle persone, delle famiglie, di un popolo.

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