Ho sempre dovuto farci i conti con le parole. Pesarle, rifletterci, contare fino a dieci e poi scegliere quali usare. Non ho mai avuto il privilegio di lasciarmele scappare di bocca con aria distratta, in maniera goliardica. Soprattutto quando si trattava di far riferimento alla persona con cui uscivo o di cui ero innamorata. A ogni pausa caffè al lavoro, per anni, ho fatto estrema attenzione a cambiare sempre il genere della persona citata, a trasformare Claudia, Roberta e Anna in Claudio, Roberto e Alessandro.

Fare coming out

Fare coming out vuol dire letteralmente venire allo scoperto, uscire fuori. L’espressione si riferisce al momento in cui si decide di condividere con familiari e amici, la propria identità di genere o orientamento sessuale. Io sono riuscita a fare coming out nel mio ambiente lavorativo solo qualche anno fa, sotto la spinta dell’attivismo e di un’ansia che non riuscivo più a gestire.

Fare coming out è probabilmente un’esperienza della vita completamente estranea per le persone eterosessuali e/o che si riconoscono nel proprio genere, e per questo probabilmente succede che non se ne riesca a capire l’importanza di questo stare allo scoperto. In Italia, secondo l’ultimo report dell’Agenzia Eu dei diritti fondamentali 2019, solo il 39 per cento delle persone Lgbt+ esprime liberamente la propria identità, a causa di un clima percepito come sempre più carico di odio. Secondo lo stesso report, infatti, per la metà del campione la situazione è nettamente peggiorata negli ultimi anni.

In generale, il dibattito sul tema della discriminazione è a mio parere umiliante. Anche chi non si dice apertamente contro, spesso afferma «quello che ognuno fa a casa propria sono affari suoi» o che «non si è contrari all’omosessualità perché ognuno a letto va con chi vuole». Questo genere di affermazioni sono ugualmente omofobe, perché i diritti e la non discriminazione non hanno a che fare col privato o con l’intimo. Non mi sembra che le persone eterosessuali non si stringano la mano per strada e, se non lo fanno, questo è frutto di una libera scelta e non di paura. La libertà di scegliere configura, di fatto, il privilegio.

Un altro elemento interessante è il concetto di intimità in riferimento alla comunità Lgbt+ e agli spazi pubblici. Vivere liberamente e in sicurezza uno spazio pubblico non ha a che fare con l’intimità, e manifestare la propria identità non ha niente di intimo. Creare questa connessione ha a che fare con la sessualizzazione e l’ideologizzazione che viene fatta ai danni delle persone omosessuali, lesbiche, bisessuali o trans*.

Come se il semplice esprimere chi si è abbia carattere erotico o ideologico. Ma non è un bacio tra due donne lesbiche a essere più intimo rispetto a un bacio tra un uomo e una donna, ma è il nostro sguardo di giudizio e oggettificazione a cambiare. Quella stessa oggettificazione che si lega a doppio filo alle violenze subite in quello stesso spazio pubblico come persone Lgbt+.

Intimità e sicurezza

Parlare di decoro, intimità, così come non sentirsi al sicuro nei luoghi pubblici e privati, non liberi di esprimere - a pari di tutti gli altri - la propria identità non solo ci racconta la discriminazione che viviamo, ma anche il controllo esercitato a livello sistemico.

La parità si configura nel momento in cui, prendendo quel caffè di cui parlavo prima, non devo pensare cento volte alle parole da usare con i miei colleghi per timore delle loro reazioni o di dover gestire delle conseguenze sul lavoro

Quando sono riuscita a farlo, mi era già stato intimato il contrario da un ex datore di lavoro perché non “creassi una barriera” tra me e i clienti. Io mi occupo di comunicazione, e ho fatto finta di non capire di quale barriera potesse frapporsi a causa del mio orientamento sessuale. Ci ho messo tempo, dopo, a trovare il coraggio di farlo ugualmente, dopo il mobbing e le battute scherzose che volevano indagare questioni - quelle sì - del tutto intime.

Purtroppo non sono sola. In Italia, secondo il report 2022 Istat e Unarr, il 40,3 per cento delle persone intervistate afferma, in relazione all’attuale o ultimo lavoro svolto, di aver evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale (41,5 per cento tra le donne, 39,7 per cento tra gli uomini). Una persona su cinque dice di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento sessuale.

Una legge

Nonostante la situazione sia retrograda e violenta, con numerosi casi di aggressioni di matrice omolesbobitransfobica, molti esponenti politici - con buona pace dell’opinione pubblica - ritengono che un’aggravante per le aggressioni e le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere non serva. Anche per affermare questo loro punto di vista, usano parole spesso violente, giustificate come contraddittorio all’interno di talk show, dall’alto di editoriali e trafiletti, o sui social media.

Tuttavia, secondo me, non esiste un contraddittorio alla vita delle persone. A chi amano e a chi sono. Non esiste un parere contrario a un bacio per strada, o a un’esperienza di mobbing. È possibile effettuare un contraddittorio in merito a due posizioni opposte in merito alle politiche, non essere contrari alla vita di qualcuno.

Così, nel 2022, ci troviamo ancora a dibattere se è giusto che io abbia diritto a menzionare l’esistenza della mia fidanzata per timore di non essere ritenuta la persona giusta per rappresentare la mia azienda. E, ora che lo faccio, ad essere riconosciuta nel mio privilegio come persona coraggiosa. Ma i diritti e le tutele non dovrebbero avere a che fare né con il privilegio, né con il coraggio e nemmeno con il merito: non c’è nulla come donna lesbica che debba meritarmi in più degli altri per non subire discriminazioni.

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