Esattamente quarantacinque anni fa, tra l’8 e il 9 giugno del 1980, nelle terre di Calabria le elezioni comunali, provinciali e regionali sancirono l’affermazione del Pci che, per la prima volta, conquistò più voti del Psi e divenne così il secondo partito nella Regione. A Rosarno, nella piana di Gioia Tauro, partì un corteo improvvisato che si diresse verso il Rione Case Nuove dove abitavano allora molti contadini che avevano “votato comunista”, ma dove c’erano anche le abitazioni del clan di ‘ndrangheta Pesce. I festeggiamenti per la vittoria alle elezioni proseguirono, poi, al ristorante “La Pergola”, ma furono interrotti dal rumore delle lupare. A cadere a terra sotto una raffica di colpi fu Peppe Valarioti, professore di 30 anni, esperto di storia ed archeologia, ma, soprattutto, segretario della sezione del Partito Comunista Italiano di Rosarno. Accadde la notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980, in località Nicotera Marina.

La storia di Valarioti è quella di una delle tante vittime dimenticate di ‘ndrangheta, ma la sua vicenda ci parla anche della genesi dell’antimafia politica e sociale nella Calabria, del primo movimento bracciantile di massa che lottò con i piedi e le mani ancorate alla fertile terra della Piana contro i potentissimi e sanguinari clan Piromalli, Pesce e Bellocco. E di una scelta di campo, essere comunisti in quegli anni e in quelle terre, infatti, significava automaticamente prendere posizione contro le cosche, perché la ’ndrangheta aveva provato a infiltrarsi nelle liste elettorali di tutti i partiti, ma solo il PCI aveva provato effettivamente a fare muro. Lo racconta uno di quei dirigenti locali amico di Peppe Valarioti, Antonino Sprizzi, ricordando gli omicidi considerati “minori” di altri militanti comunisti: Ciccio Vinci giovane leader della FGCI di Cittanova, Rocco Gatto mugnaio comunista di Gioiosa Jonica, primo Comune d’Italia a costituirsi parte civile in un processo contro la ’ndrangheta, Orlando Legname contadino comunista di Limbadi in provincia di Vibo Valentia.

L’occasione è l’uscita del docufilm “Medma non si piega”, scritto e diretto da Gianluca Palma, in collaborazione con Giulia Zanfino e Mauro Nigro, e prodotto da Ugly Films, società di produzione cinematografica che ha dedicato a Valarioti e a Giovanni Losardo, (primi due delitti di stampo politico-mafioso in Calabria) due docufilm. “Chi ha ucciso Giovanni Losardo?”, di Giulia Zanfino contiene anche un’intervista esclusiva al boss Franco Muto di Cetraro. Entrambi i dirigenti comunisti furono uccisi nel 1980, l’11 giugno Valarioti, e undici giorni dopo, il 22 giugno, appunto Losardo, amministratore comunista del comune di Cetraro e funzionario della procura della Repubblica di Paola, in provincia di Cosenza.

“Medma non si piega” è una storia che incrocia la terra e l’archeologia. Come racconta la professoressa Carmela Ferro nel docufilm che Domani ha visto in anteprima e sarà presentato il 19 giugno durante la quattordicesima di Trame, Festival di libri contro le mafie diretto da Giovanni Tizian: «Peppe era innamorato, anzi, ossessionato dalle origini magnogreche dell’Antica Medma, la colonia locridea fondata tra il 400 e il 500 a.C. sulla collina dove sorse poi Rosarno, e intendeva tutelare ogni resto di muro, colonna o pietra antica di Medma dalle speculazioni edilizie per trasmetterne il valore ai suoi alunni».

«Valarioti e Losardo sono stati grandi protagonisti di quella lotta per il lavoro, i diritti e la dignità della povera gente di Calabria, una storia che si colloca nel preciso momento storico in cui clan come i Piromalli di Gioia Tauro diventano mafia industriale», dice Gianluca Palma, uno degli autori del docufilm che contiene gli audio inediti del politico calabrese. «Sono gli anni in cui Giulio Andreotti pone la prima pietra del quinto centro siderurgico mai realizzato a Gioia Tauro, dei miliardi piombati nella provincia reggina per opere rimaste cattedrali sul deserto come la Liquichimica, soldi buoni solo per ingrassare gli appetiti criminali». Continua Palma: «fu un piano ingente di stanziamento di soldi pubblici, il così detto Pacchetto Colombo, ma servì, di fatto, a consentire il salto industriale ed economico della ‘ndrangheta».

A capirlo prima di tutti furono i dirigenti comunisti come Valarioti. E c’è una scena del docufilm che lo rende plasticamente evidente. È il 31 ottobre 1978, quel giorno un professore contadino di 27 anni partì da Rosarno verso Roma per “sfidare” con una pietra enorme di cartone l’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti. Peppe Valarioti era alla testa di un corteo di 30000 persone che protestarono nella Capitale contro il governo che aveva promesso e non mantenuto decine di migliaia di posti di lavoro nella Piana di Gioia Tauro. Oggi quella lezione di antimafia la ricordano in pochi sul piano politico nazionale. A Rosarno, invece, quel testimone è stato raccolto, tra gli altri dalla Casa del Popolo “G. Valarioti” e dal progetto Dambe So, la Casa della Dignità, realizzata dalla Federazione delle Chiese Evangeliche insieme a SOS Rosarno e altre associazioni del territorio per creare economia circolare e superare i ghetti dove sono confinati molti braccianti della Piana. Un progetto attraverso cui gli sfruttati pretendono diritti e dignità, proprio come insegnava Valarioti.

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