Un progetto dell’ICS “Saveria Profeta” di Ustica ha messo in piedi un percorso commemorativo, che mira anche all’istituzione di una Giornata del ricordo delle vittime del colonialismo italiano, vuole estendere questa consapevolezza oltre i confini dell’isola. Su quell’isola, il 17 maggio, è stato piantato un ulivo. Gli studenti lo hanno battezzato “Anonimo”, come le tante vittime sepolte in quel cimitero senza un nome
«Perché a Ustica esiste un “cimitero degli arabi”?». La domanda, semplice quanto disarmante, ha riattivato negli anni un lento e ostinato lavoro di memoria. Il Centro Studi di Ustica, insieme a Un Ponte Per, Arci, realtà locali e associazioni nazionali, ha promosso dal 15 al 17 maggio un’iniziativa per ricordare una vicenda rimossa della storia coloniale italiana: la deportazione, tra il 1911 e il 1934, di migliaia di oppositori e civili libici nelle isole minori del Regno d’Italia, tra cui Ustica, le Tremiti, Ponza e Favignana.
Questa pagina dimenticata è riemersa attraverso le tracce lasciate proprio sull’isola: registri anagrafici, resti materiali, toponimi, ma soprattutto testimonianze locali e ricerche civili. Oggi, a distanza di oltre un secolo, queste memorie sono diventate oggetto di una riflessione pubblica, educativa, collettiva.
Centrale è stata la presenza degli studenti e delle studentesse dell’ICS “Saveria Profeta” di Ustica, che hanno preso parte al corteo cittadino partito da piazza Municipio e diretto al cimitero degli arabi, dove si è svolta la cerimonia di piantumazione di un ulivo e la posa di una targa commemorativa.
L’attività degli studenti
«Questo evento - spiega Marina Pagano, docente di lettere - ha mosso qualcosa in profondità. Ha dato a tutti, adulti compresi, l’occasione di interrogarsi. I ragazzi si sono appassionati. Hanno fatto domande, si sono chiesti perché la scuola, e più in generale la cultura dominante, tenda a rimuovere queste vicende. Hanno cercato connessioni con il presente. Molti hanno pensato agli italiani senza cittadinanza, ai loro coetanei nati qui ma ancora privi di diritti».
È proprio in questa tensione tra memoria e attualità che si gioca il valore educativo dell’esperienza. «Quando leggiamo un’opera letteraria come Adua di Igiaba Scego, capiamo che la letteratura può farsi ponte tra passato e presente, può colmare i vuoti della storia ufficiale e la scuola ha la responsabilità di offrire strumenti per leggere questi vuoti», aggiunge Pagano.
Anche per la dirigente scolastica, Bianca Guzzetta, la scuola deve avere un ruolo centrale: «Le commemorazioni hanno sempre un doppio livello: da un lato la trasmissione del fatto storico, dall’altro la costruzione di comunità. Questo evento ha messo in relazione la scuola, le famiglie, le associazioni e i singoli che hanno composto la delegazione, creando una trama condivisa di senso. Ma serve una trasformazione più profonda. Le recenti Indicazioni nazionali per la scuola tendono a restringere ancora di più l’orizzonte, riproponendo una storia confinata all’Occidente, lineare e autoreferenziale. La scuola italiana oggi rischia di rimpicciolire la storia, di piegarla su una narrazione parziale. Noi dobbiamo andare in senso opposto: riconoscere le nostre responsabilità, costruire una storia di riparazione, dare spazio ai punti di vista plurali».
Fare i conti col passato
A toccare con mano questa complessità sono stati soprattutto gli studenti. Chiara, del terzo scientifico, racconta con emozione: «Sono nata a Ustica, ma questa storia non la conoscevo. Scoprire che proprio dove oggi c’è una pizzeria, un tempo c’era un camerone che ospitava i deportati libici. Fa impressione. È una sensazione stranissima. Studiare e poi vedere con i propri occhi i luoghi, attraversarli, dà un’altra profondità. Capisci che la libertà che abbiamo non è scontata. Ed è grazie a chi ha sofferto, a chi ha resistito, se oggi possiamo viverla».
Il progetto commemorativo, che mira anche all’istituzione di una Giornata del ricordo delle vittime del colonialismo italiano, vuole estendere questa consapevolezza oltre i confini dell’isola. «La scuola può essere un baluardo», dice Pagano, «ma serve una diffusione capillare. Sarebbe bello che iniziative come questa si facessero in tante altre scuole d’Italia».
Tra i promotori della memoria civile di Ustica spicca la figura di Vito Ailara, fondatore del Centro Studi, che da anni documenta la storia dei deportati libici e dei dissidenti politici italiani. «Quando Gramsci arrivò a Ustica nel dicembre del 1926 – racconta – c’erano già alcuni oppositori politici mandati al confino, ma fu proprio con lui e con Bordiga che nacque la prima scuola pensata e costruita dai confinati. In un’isola senza acqua corrente, né luce, né collegamenti stabili, questi uomini organizzarono corsi, mense autogestite, conferenze, una biblioteca. Tutti insegnavano e tutti imparavano. Era una scuola di resistenza culturale».
Alle lezioni di Gramsci prendevano parte operai, contadini, intellettuali. Alcuni, come Giuseppe De Vito, semi-analfabeti, divennero poi sindaci nei loro paesi. «Il fascismo pensava di isolare gli oppositori – dice Ailara – ma li mise in condizione di formarsi, di stringere legami, di preparare la democrazia futura. La nostra isola - dice con orgoglio - ha custodito quel seme. Così, oggi, nel ricordo dei deportati libici, lo restituiamo alla collettività».
Per ora, le parole delle studenti, come quelle delle insegnanti, hanno saputo rompere il silenzio. «Le parole sono pietre», risuona nella piazza, citando Carlo Levi, confinato politico anch’egli. «Pietre che possono essere scagliate, ma anche usate per costruire».
Su quell’isola, il 17 maggio, è stato piantato un ulivo. Gli studenti lo hanno battezzato “Anonimo”, come le tante vittime sepolte in quel cimitero senza un nome, senza una storia riconosciuta. Un gesto semplice, ma carico di memoria. Accanto a lui, è stata posta una targa che ricorda alcuni versi di Silvio Campanile, confinato politico ucciso poi alle Fosse Ardeatine, che nel 1927 scrisse “Arabia Felix”, una poesia che resta uno dei documenti più intensi della solidarietà tra deportati libici e antifascisti italiani, entrambi costretti a vivere sull’isola. Accanto a quelli di Campanile, sono stati scelti anche i versi del poeta libico Fadil al Shalmani, internato a Favignana, che raccontano dall’interno l’esperienza del confino coloniale. Due lingue, due storie, due voci che oggi tornano a parlarsi in uno spazio pubblico, restituendo forma e dignità a una memoria condivisa.
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