Il 25 agosto 2025 l’Inps ha tolto ogni dubbio: con il messaggio n. 2491 l’istituto ha confermato l’applicazione dei tagli alle pensioni dei dipendenti pubblici che andranno in quiescenza prima dei 67 anni. Non si tratta di un aggiustamento tecnico, ma dell’esecuzione di un’operazione politica precisa, prevista dalla legge di bilancio 2025: una sforbiciata alla quota retributiva degli assegni pensionistici per chi, al 31 dicembre 1995, aveva meno di 15 anni di contributi versati nelle gestioni Cpdel, Cps, Cpi e Cpug. Una platea numerosa e definita: oltre 730mila lavoratrici e lavoratori entro il 2043.

Il messaggio Inps arriva dopo mesi di silenzi e interpretazioni, ma ora la cornice è chiara: chi accede alla pensione anticipata – dunque prima dei 67 anni, nuova soglia ordinamentale – si vedrà decurtata la parte più solida dell’assegno. A essere colpiti non sono i privilegi ma i diritti contributivi maturati secondo le regole vigenti all’epoca. È la prima volta, osservano Cgil, Fp e Flc, che lo stato interviene in modo retroattivo sulla parte retributiva, modificando una base che si credeva intoccabile. La definizione è netta: «Una misura in violazione dei principi di certezza del diritto, con evidenti profili di incostituzionalità».

I dati 

L’impatto del provvedimento, documentato dai dati tecnici dell’Ufficio Politiche previdenziali della Cgil, è immediato e concreto. Su una retribuzione annua di 30mila euro, il taglio va da 927 a 6.177 euro l’anno, a seconda dell’anno di inizio contribuzione. Per chi guadagna 50mila euro si sale da 1.545 a 10.296 euro, mentre a quota 70mila si arriva a una perdita annuale tra i 2.163 e i 14.415 euro. A regime, il taglio complessivo stimato per la platea coinvolta è pari a 33 miliardi di euro.

In parallelo, la legge di bilancio ha aumentato le finestre di uscita. Dal 2025 in poi, il tempo di attesa tra la maturazione del diritto e il pensionamento vero e proprio si allunga. Nel 2028 si arriverà a nove mesi in più di attesa per il solo pubblico impiego. Uno slittamento che non ha nulla di fisiologico: si tratta di un ulteriore strumento per rallentare l’uscita, contenere la spesa e ridurre gli assegni, mentre si continua a parlare di “superamento della Fornero” come se fossimo di fronte a un allentamento.

L’effetto complessivo è paradossale: chi ha iniziato a lavorare in giovane età rischia di dover versare 48-49 anni di contributi per evitare il taglio, in barba a tutte le promesse di flessibilità. Lo stato spinge il pensionamento verso l’età ordinamentale, rendendo le vie alternative sempre più penalizzanti. E lo fa in silenzio, evitando di nominare i numeri reali.

A peggiorare il quadro si aggiunge il nodo dei trattamenti di fine servizio. Secondo la denuncia della Cgil siamo di fronte a un “sequestro” di fatto del Tfr/Tfs: liquidazioni pagate con mesi, spesso anni di ritardo, a fronte di una norma che ora ipotizza persino di utilizzarle per finanziare l’uscita anticipata. Un ribaltamento logico: il lavoratore dovrebbe anticipare i propri soldi per lasciare il lavoro, quando l’amministrazione non è nemmeno in grado di saldare in tempi normali quanto già dovuto.

La Corte costituzionale ha già sollecitato un intervento ma il governo ha ignorato la questione. E oggi, mentre si valuta il riuso del Tfr come “ponte” per il pensionamento, i dipendenti pubblici continuano a vedersi trattenere quel che spetta loro per legge. Non si tratta solo di un problema amministrativo: è una violazione dei diritti patrimoniali, su cui ora si aprono nuovi fronti di contenzioso.

Fare cassa sui diritti maturati

Il messaggio dell’Inps ha anche un valore tecnico rilevante: estende l’applicazione dei tagli anche in casi non previsti con chiarezza dalla legge. È il caso del cumulo contributivo tra diverse gestioni: l’Inps applica il taglio anche in questi casi, pur in assenza di una norma esplicita. Ancora più controversa la scelta di non riconoscere la deroga prevista per chi accede alla pensione di vecchiaia al di fuori di un rapporto di lavoro pubblico. In questi casi, secondo i sindacati, la legge garantiva il mantenimento delle vecchie aliquote. L’interpretazione dell’Inps, però, restringe i diritti.

L’accusa della Cgil è netta: «Si introducono interpretazioni che superano la normativa stessa, restringendo diritti che la legge aveva già tutelato». Da qui la decisione di portare la vertenza «fino alla Corte costituzionale», rafforzando i ricorsi già avviati sia sul taglio alle aliquote sia sul Tfr. Si prepara un fronte giuridico ampio, che mette in discussione l’impianto stesso della manovra.

La propaganda ufficiale insiste sul “superamento della Fornero”, ma i dati smentiscono la narrazione. Le lavoratrici e i lavoratori pubblici vengono spinti verso una permanenza forzata e un taglio retroattivo, con penalizzazioni crescenti quanto più si tenta di uscire prima. A subire il danno sono gli stessi che, spesso con salari modesti e carriere discontinue, hanno contribuito per decenni al funzionamento dell’apparato pubblico.

Il governo sceglie di fare cassa sui diritti già maturati, spostando il peso della sostenibilità previdenziale su chi ha già dato. Non è un riordino. È un arretramento. E le cifre, questa volta, parlano da sole.

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