Il 10 agosto 2023 il sole batte sullo scafo rovente del pattugliatore CP 940 mentre naviga verso numerose barche alla deriva in acque internazionali. La missione, per la nave “Luigi Dattilo” della Guardia costiera italiana, è di sorveglianza marittima. Un membro dell’equipaggio sta cercando Giuseppe Conigliaro: 52 anni, capo componente delle telecomunicazioni, che non si vede da un po’.

Alla fine lo trova dopo che con una corda ha deciso di togliersi la vita. I medici del Cisom (Corpo di soccorso dell’ordine di Malta) accorrono nella speranza di rianimarlo: dopo quaranta minuti e quattro fiale di adrenalina non c’è più modo di salvarlo. Il 16 agosto la missione termina. A più di un anno di distanza, l’ufficio centrale della Guardia costiera non ha mai risposto alle domande in merito a questa morte.

Domani ha parlato con diversi militari interni alla Guardia costiera, alcuni hanno deciso di parlare con la garanzia dell’anonimato. Uno di loro conosceva Conigliaro: «C’erano delle registrazioni: le ho ascoltate. Diceva che non era in grado di sopportare la pressione del compito che gli era stato assegnato».

Conigliaro organizzava le missioni e indagava ascoltando le persone appena salvate per capire se erano stati commessi reati connessi all’attività migratoria irregolare. «So di questi racconti fatti in lacrime: era disperato. Minacciava il suicidio», racconta un secondo militare.

Entrambi sostengono che il comando fosse a conoscenza sia dei racconti sia delle registrazioni. Per questo motivo e per le temute ripercussioni, hanno deciso di rimanere anonimi. E la denuncia del primo militare è netta: «Un intervento più tempestivo avrebbe potuto aiutarlo».

I numeri e il sommerso

Secondo i dati ottenuti tramite richiesta di accesso agli atti dal ministero della Difesa, il numero dei suicidi all’interno della Marina militare, di cui la Guardia costiera fa parte, non segue una linea costante: nel 2023, i militari che si sono tolti la vita sono stati quattro (nel 2022, uno, così come nel 2024, aggiornato a inizio dicembre).

Ma gli accessi agli sportelli di aiuto psicologico gestiti dalla Commissione medica militare (Cmo) sono in calo continuo: dai 7.507 del 2018 ai 1.965 del 2023. «Il ministero mostra quei numeri sui suoi documenti, ma è una forzatura: la verità è che le persone hanno paura di recarsi agli sportelli perché temono di perdere il lavoro», commenta una fonte interna alla Cmo.

Quest’ultima è composta da medici militari che forniscono anche il giudizio sull’idoneità psico-fisica dei militari: un timbro che può obbligare a uno stop forzato dal lavoro, fino alla decurtazione dello stipendio e al licenziamento. E che quindi per molti non può essere uno spazio sicuro. In una mail, a precise domande inviate dagli autori di questa inchiesta sui metodi di tutela degli equipaggi e sull’accompagnamento psicologico, oltre ché sul ruolo degli psicologi militari, la Guardia costiera riferisce che «le procedure di idoneità vengono svolte dal preposto servizio sanitario con visite mediche periodiche e occasionali», senza perciò un sostegno sistematico.

Aggiungono nella stessa mail che, «a questo, si aggiunge il supporto fornito dal Cisom (Corpo Italiano di Soccorso dell'Ordine di Malta) a seguito di un accordo sottoscritto con il Comando generale della Guardia costiera, che grazie a personale specializzato fornisce, a richiesta dei comandi, supporto psicologico di gruppo ed individuale al personale che opera nello scenario del soccorso in mare in favore di migranti».

Assenza di un sostegno

Si nota la mancanza di un sostegno continuativo, vista la discrezionalità dei comandi nel richiedere supporto psicologico per i soccorritori.

Antonella Postorino degli Psicologi per i popoli, che si occupano di fornire gli strumenti della psicologia dell’emergenza, lo dice chiaramente: «L’evento del soccorso in mare è sempre critico. Sono necessari programmi che mirano a sviluppare le abilità emotive che permettono di gestire le proprie emozioni e quelle degli altri». Per militari e soccorritori ai fattori di rischio si sovrappongono anche quelli derivanti dalla struttura gerarchica militare, spesso mobbing vero e proprio.

Dietro l’incombenza delle ripercussioni e davanti al potere della Cmo, quindi la maggior parte dei militari non può farsi riconoscere, anche dopo essere transitati a ruoli civili. Cinzia Conti, che ha trascorso dodici anni nel corpo della Marina militare, è colei che invece ha deciso di esporsi pubblicamente. «L’aborto e la convalescenza che ne è seguita sono stati un’esperienza traumatica. Sono arrivata a chiedere al medico di farmi idonea e tornare in servizio per i sensi di colpa».

Un sentimento nato dall’atteggiamento dei superiori, che ha il suo apice nel giorno in cui il capo la manda a chiamare e le chiede di trovare una ricevuta. Cinzia, che la nota in un faldone sotto il braccio di lui, gliela indica, senza avvicinarsi per prenderla. La risposta è secca: «Qui il capo sono io e tu fai quel che dico io». Cinzia esce dalla porta in preda a un attacco di panico, per cui viene portata al pronto soccorso con una maschera per l’ossigeno sul volto.

Dopo giorni di convalescenza, intorno a lei c’è il vuoto: nessuno si è fatto vivo. Solo il suo superiore le chiede di chiamarlo: «Ti sei comportata male», si sente dire al telefono, «quel giorno potevi chiarire, anziché andare in ospedale».

La storia personale di Cinzia Conti è un simbolo: «Ci vuole un gran coraggio», dice, «anche per togliersi quella divisa per sempre». Eppure non è l’unica; altrove, chi ancora non ha deciso di mostrarsi dichiara la sua denuncia anche verso il personale sanitario: «L’aiuto da parte del personale militare medico, psichiatri o psicologi, è inesistente, perché loro fanno solo un lavoro di conferma delle disposizioni dei capi» spiega un terzo militare.

«Non riconducono mai il disagio al lavoro: sviano su fattori esterni. Ma io sono entrato sano e mi ritrovo con un disturbo ansioso-depressivo». Ansia, depressione, disturbi dell’adattamento e ipersensibilità. «Ho vissuto degli atteggiamenti vessatori sistematici»,aggiunge un altro dei testimoni interni al Corpo: «Dopo mesi a casa ho pensato al suicidio. Mio figlio mi diceva che ero una nullità e che ero incapace a subire. Oggi se vedo un ufficiale che rimprovera un sottoposto mi viene da piangere, come se stesse succedendo a me».

A questo si sommano le operazioni in mare. Uno dei militari che ha deciso di raccontare la sua esperienza spiega che «l’impatto dei naufragi è devastante: c’è chi scoppia in un pianto isterico e chi magari la prima cosa che fa appena tornato a casa è abbracciare i suoi figli». Ma a differenza delle reazioni individuali, la denuncia è univoca: «Non c’è un’assistenza psicologica: al di là delle belle parole, subito dopo i soccorsi, sparisce tutto».


L’inchiesta “Ombre sul mare” è stata finalista alla tredicesima edizione del Premio Roberto Morrione per il giornalismo investigativo ed è stata realizzata grazie al supporto dell’Associazione Roberto Morrione.

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