I video dei pestaggi commessi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere documentano solo una parte delle violenze da parte degli agenti. Tutto il resto viene ricostruito da testimonianze corroborate dalle foto sui corpi martoriati dei detenuti. Quei corpi che parlano hanno spinto il giudice per le indagini preliminari Sergio Enea a parlare di «orribile mattanza». Il 6 aprile 2020 i detenuti del reparto Nilo vengono pestati, alcuni vengono trascinati fuori dalle celle e condotti in isolamento.

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Finiscono in un altro reparto, il Danubio. Sono 15. «Nelle operazioni in questione taluni detenuti hanno opposto resistenza. Dodici, in particolare, venivano individuati e rapportati disciplinarmente. Tutti risultano essere stati sanzionati, ai sensi dell’articolo 39 dell’ordinamento penitenziario, con 15 giorni di esclusione dalle attività in comune», diceva il governo Conte 2 in aula il 16 ottobre rispondendo a un’interrogazione parlamentare del deputato Riccardo Magi.

Pochi giorni prima Domani aveva scritto che un detenuto, affetto da patologie, invece, era stato picchiato, messo in isolamento e, dopo un mese, era morto. Di quella morte non c’era traccia nella risposta del governo. Quel detenuto si chiamava Lamine Hakimi e, scorrendo le migliaia di pagine dell’inchiesta, si può ricostruire il mese che lo ha portato alla morte. Hakimi, secondo la procura di Santa Maria Capua Vetere, non doveva andare in isolamento e soprattutto, in quei giorni, non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia da cui era affetto. Sempre secondo la pubblica accusa, per mandare i detenuti in isolamento è stata redatta una falsa informativa.

Falsi atti pubblici che dovevano giustificare le violenze commesse il 6 aprile. Per questo vengono contestati i reati di falso e calunnia a vari agenti. «Condotte violente, degradanti e inumane, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse», scrive il giudice. I falsi servivano anche, dopo la morte di Hakimi, a occultare le responsabilità in ordine al provvedimento disciplinare adottato illegalmente nei confronti dei 15 detenuti. Mancavano tutti i presupposti per mandarli in isolamento sia il provvedimento motivato che la certificazione prevista dall’ordinamento penitenziario.

Per la procura, tesi non condivisa dal giudice, l’isolamento ingiusto, l’illegittimo provvedimento di esclusione dalle attività comuni, portava alla morte del detenuto. Morte determinata dalle condizioni di abbandono, «senza adeguato e minimo controllo medico e controllo sulla assunzione delle prescritte terapie, in un soggetto psichicamente sofferente e fortemente stressato a causa delle violenze subite e dalla conseguente assunzioni di dose tossica (un mix di oppiacei, ndr)».

I segni del pestaggio

Quel pomeriggio del 6 aprile Hakimi, affetto da schizofrenia, viene prelevato dalla sua cella. Nel reparto ci sono detenuti con problemi mentali e di tossicodipendenza. I magistrati non possono ascoltare la sua testimonianza, durante l’inchiesta, perché muore prima, il 4 maggio, ma è possibile ricostruire il pestaggio che ha subito grazie alle parole dei suoi compagni di carcere e al referto di una visita medica.

«Sono stato malmenato da numerosi agenti con manganelli, pugni e calci», dice Hakimi al medico che lo visita, il 15 aprile. Il medico scatta le foto dei lividi sul volto, sulla schiena e sul torace del detenuto: a dieci giorni dal pestaggio sono ancora evidenti. «Tali lesioni risultano compatibili con quanto riportato agli atti e con le dichiarazioni anamnestiche del sig. Hakimi», scrive il medico nel referto. «Gli davano calci, cazzotti e manganelli. E l’altro poliziotto mi lasciò a me e andò dietro a dire: “no, no, no, a calci no (...) non lo uccidete perché se no lo paghiamo”». È il racconto ai magistrati di uno degli altri detenuti portati al Danubio. Hakimi prova a reagire, ma viene assalito da un drappello di agenti.

Dal corridoio viene portato in uno spazio aperto: «Stava spezzato! Si vedevano segni neri come, i tubi, i tubi proprio», dice il testimone. Non è finita perché viene pestato anche durante il tragitto verso l’isolamento. «Ho visto che era tutto sanguinante e che tre o quattro agenti lo hanno trascinato (...) durante il percorso lo picchiavano con dei bastoni», racconta un altro detenuto. Hakimi è l’unico dei 15 reclusi che viene picchiato anche dopo essere stato condotto in isolamento. «Aveva una testa così, non me la dimentico più quella testa, vomitava sangue, nel frattempo che sono stato io andava sempre in bagno a vomitare sangue», racconta un altro detenuto.

Nei giorni successivi al 6 aprile, Hakimi non ha ricevuto cure e non era neanche piantonato per evitare gesti di autolesionismo, come invece sarebbe stato necessario. «Diceva: “appuntato le mie medicine! Chiamate in infermeria, infermiere, infermiere!” (...) Comunque un’ora, due ore non ci davano le medicine e lui faceva più casino, perché stava male, male». La risposta degli agenti? Venivano e dicevano: «”non fare casino” e lo minacciavano», dice un testimone. La sera del 3 maggio la situazione peggiora. «Gli dicevo (al poliziotto penitenziario, ndr) di aprire la cella perché, considerate le sue patologie, non poteva stare chiuso... mi affacciavo per parlare con Hakimi e lui mi diceva, per cinque volte, “salutami mia madre”. Ho avuto la sensazione che Hakimi fosse disperato». Muore così, il 4 maggio, in isolamento e abbandonato da tutti.

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