C’è un lato ancora più oscuro di quelli già noti nella storia del pestaggio dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenuto il 6 aprile 2020: i detenuti avevano bastoni, olio bollente, e oggetti per offendere gli agenti della polizia penitenziaria? Li avevano usati durante le proteste del giorno prima?

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Domani aveva posto la questione lo scorso ottobre sollevando dubbi e ipotizzando un possibile depistaggio, ma la direzione del carcere e le forze dell’ordine avevano confermato la presenza degli strumenti d’offesa. Dalle chat dei “registi” della «orribile mattanza», invece, emerge che non c’erano né bastoni e né olio. Di olio parlava anche un’interrogazione parlamentare, presentata da 15 deputati di Fratelli d’Italia, nel giugno 2020. Ma ora l’indagine della magistratura chiarisce che quello degli indagati, gli agenti e i vertici della penitenziaria di Santa Maria, il provveditore regionale Antonio Fullone, è stato un «deprecabile depistaggio».

Le false fotografie

I “registi” della spedizione punitiva sono accusati di aver depistato le indagini, con fotografie «oggetto di manipolazione informatica» per «creare ulteriori elementi calunniatori nei confronti dei detenuti» denunciati per le proteste nel carcere. Dopo le proteste del 5 aprile e la “perquisizione straordinaria” del giorno dopo, gli indagati scrivono: «per ristabilire l’ordine e la sicurezza del reparto, è stato necessario bonificare la totalità delle celle, nelle quali sono stati rinvenuti oggetti di fattura rudimentale atti a offendere: pentole colme di liquidi bollenti, accumuli di bombolette di gas pronte per essere lanciate, spranghe di ferro ecc...». Ma questo materiale non c’era e bisogna “fabbricarlo”. «Con discrezione e con qualcuno fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro… In qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino su fornellino anche con acqua», scrive Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del reparto Nilo, a un collega.

Montaggio di Carmen Baffi

Sulle foto poi hanno cercato anche di modificare le date, per far vedere che non erano state scattate l’8 aprile ma il 6 aprile, giorno della “mattanza”. Costanzo è finita ai domiciliari, considerata tra le registe della mattanza. Le foto vengono scattate l’8 aprile all’interno di una cella, sfruttando l’assenza dei detenuti e ritraggono «pentole e padelle poste su fornelli, contenenti olio o liquidi giallastri». A che serviva questa macchinazione? Lo scrive il giudice Enea: «Il tutto serviva ad accreditare la tesi secondo cui le lesioni subite dai detenuti fossero causate dalla necessità di vincere la loro resistenza, imputando la detenzione al giorno 6 aprile, a sostegno della falsa relazione redatta da Colucci in data 8 aprile». Relazione che veniva falsificata datandola “6 aprile”. Pasquale Colucci, comandante del gruppo di supporto agli interventi, è finito ai domiciliari.

«Abbiamo fatto delle foto eccellenti. Ma il comandante ci ha stoppati… ha detto di non esagerare», è la risposta inviata alla Costanzo che insiste: «fatene giusto qualcuna». La risposta non lascia spazio a equivoci: «Il comandante poi ha aggiunto chi ha esagerato deve assumersi la responsabilità...».

Un altro agente manda poi un audio a Costanzo. «Per quanto riguarda l’altra questione abbiamo fatto l’inventario di tutto quello era stato rinvenuto soprattutto terza e quinta sezione durante l’operazione e il buon Zampella con Gennaro ha fatto l’inventario tra tutti gli arnesi e pentolame e roba varia quello che era diciamo più potenzialmente pericolo oppure destinato all’offesa è stato inventariato con una decina di bastoni e altre pezzi di ferro ricavati mi pare sia dai tavolini che dal ping pong...». Nelle chat degli indagati non ci sono solo i riscontri al depistaggio, ma anche l’organizzazione della mattanza.

La notte prima

«Mariella scusami, la situazione non si sblocca e allora l’unica scelta è quella di usare la forza. Tecnicamente è il direttore che impartisce l’ordine. Ovviamente puoi fare riferimento che viene dato di intesa con me». È la sera del 5 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è ancora in corso la protesta dei detenuti, per la paura del contagio da Covid-19. Una protesta in cui nessun atto violento è stato compiuto nei confronti degli agenti della polizia penitenziaria. Alle 22.25 Antonio Fullone, provveditore delle carceri della regione Campania, anche lui considerato dall’accusa uno dei “registi” (ora interdetto dal giudice), invia questo messaggio a Maria Parenti (non indagata), vicedirettore e in quel momento reggente del carcere. Le dice che non c’è altra alternativa all’uso della forza per sedare la protesta, che invece termina grazie al dialogo. Un’ora e mezza dopo, Parenti scrive al provveditore che la «protesta [è] rientrata». Le chat aiutano a ricostruire ogni fase preparatoria della “perquisizione straordinaria”.

«Se vengo però interveniamo», scrive Pasquale Colucci a Manganelli, entrambi oggi sono ai domiciliari. Alle 12.36, in una chat della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere – composta da circa 110 persone – si dà appuntamento a tutti: «Entro le 15.30 in tuta operativa tutti in istituto. Si deve chiudere il Reparto Nilo (il reparto del carcere in cui sono presenti prevalentemente detenuti con problemi psicologici o di tossicodipendenza, ndr) x sempre, u tiemp re buone azioni e fernut. W la polizia penitenziaria». Si passa alle maniere forti. Alcuni rispondono soddisfatti. Poco dopo le 13.30 però «non vi è alcuna rivolta» e «tutti i detenuti sono rientrati dai passeggi (nelle celle, ndr)», scrive Manganelli a Fullone. Non cambia nulla, la spedizione punitiva si farà lo stesso. «quattro ore di inferno… per loro», scriverà in serata a un collega il commissario Colucci.

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