La tradizione è un uso che si evolve. E di conseguenza della tradizione culinaria italiana è ormai entrato di buon diritto il sushi, passato da moda a pilastro
- Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola da sabato 28 giugno
Il 18 giugno è stato il Sushi Day e improvvisamente abbiamo scoperto che nel cuore della patria della pasta e della pizza, il sushi ha trovato casa. L’Italia, infatti, è oggi il primo paese in Europa per consumo di sushi, superando giganti come Germania, Francia e Regno Unito, sia per numero di ristoranti pro capite che per frequenza di consumo. Un dato che, se letto superficialmente, può sembrare anomalo o addirittura provocatorio. Ma a ben vedere, racconta molto di più: dice chi siamo diventati a tavola, quanto la retorica della “tradizione” culinaria italiana sia, in fondo, un’illusione selettiva, e come il nostro palato si sia globalizzato ben oltre quanto vogliamo ammettere.
A ben vedere, il sushi è un fenomeno molto italiano, perfettamente coerente con la storia della nostra cultura gastronomica. Secondo dati rilasciati da Coldiretti e confermati da ricerche Nielsen, nel 2024 il numero di ristoranti giapponesi (o presunti tali) in Italia ha superato quota 15mila. A Milano, Torino, Bologna e Roma, ce ne sono ormai più di pizzerie. Il fatturato del settore legato al sushi — tra ristorazione, delivery e grande distribuzione — ha toccato i 3 miliardi di euro. In alcuni supermercati, la sezione sushi occupa più spazio dei salumi.
Da moda a pilastro
Quello che è iniziato negli anni Novanta come una moda esotica riservata alle grandi città è diventato un pilastro della dieta urbana. Il sushi all-you-can-eat ha colonizzato intere generazioni, offrendo una formula che unisce estetica, leggerezza percepita e accessibilità economica. Gli chef cinesi travestiti da giapponesi hanno creato un ibrido culturalmente opaco ma incredibilmente efficace. Il sushi, in Italia, è diventato italiano — o perlomeno, è diventato quello che agli italiani piace pensare sia il sushi.
Eppure, questo amore per il sushi convive — senza apparente contraddizione — con un’altra narrativa fortissima: quella della sacralità della cucina italiana. “La cucina della nonna”, “le ricette della tradizione”, “i sapori di una volta”. Basta accendere un programma televisivo, entrare in una trattoria per turisti o aprire il menù di un ristorante “autentico” per essere travolti da un culto nostalgico del passato.
Ma a chi è realmente rivolta questa retorica? Non certo alle ultime generazioni di italiani, ormai avvezze a un gusto globalizzato, ma piuttosto al turista americano che cerca “la vera carbonara” o al boomer milanese in vacanza che vuole sentirsi a casa anche in Puglia. La verità è che questa narrazione ha poco a che fare con il modo in cui gli italiani mangiano davvero nel quotidiano. Il sushi è solo l’esempio più eclatante, ma il fenomeno è molto più ampio: kebab, poké, ramen, tacos, burger gourmet, cucina thai, cucina etiope. La cucina italiana si difende bene, certo — ma non è più la sola sulla scena. E forse non lo è nemmeno nei cuori (e negli stomaci) degli italiani.
La mutazione
Come non mi stancherò mai di ripetere, la “tradizione” è una costruzione sociale, non un dato di fatto immutabile. Lo era quando il pomodoro è arrivato dall’America nel XVI secolo, lo era quando l’ananas ha iniziato a comparire sulle pizze (con scarso successo i Italia, ma con un vero e proprio trionfo nel resto del mondo). E lo è oggi, quando parliamo di “cucina regionale” dimenticandoci che molte delle ricette che oggi consideriamo storiche sono invenzioni recenti, codificate spesso nel dopoguerra. Il pesto come lo conosciamo oggi ha meno di cent’anni. La “vera” carbonara è una creazione postbellica, influenzata dalla presenza americana. La parmigiana, in mille varianti, è un esempio perfetto di caos filologico. Eppure, il brand “cucina italiana” vende. Vende all’estero, dove rappresenta qualità, semplicità e passione. E vende in Italia come prodotto di rassicurazione culturale. È l’ultima difesa di un’identità nazionale liquida, sempre più messa in crisi dalla modernità.
Ma è, appunto, solo un brand. Mangiare sushi, per gli italiani, non è più un atto esotico. È diventato routine. Ha una sua grammatica estetica — la ciotola di soia, le bacchette, il wasabi — che ormai fa parte dell’immaginario pop. È instagrammabile, è leggero, è multitasking: perfetto per una pausa pranzo veloce, una cena tra amici, una serata da delivery. È, paradossalmente, un cibo identitario per una generazione che rifugge ogni identità rigida.
Eppure, il sushi in Italia non è quasi mai giapponese. È una creatura meticcia, che deve più alla Cina che al Giappone, che si è adattata ai gusti locali (maionese, Philadelphia, frittura, salsa teriyaki), che ha fatto della contaminazione la sua forza. In questo, forse, non è molto diverso dalla nostra “tradizione”.
In un'epoca di crisi climatica, di nuove consapevolezze alimentari, di città meticce e di gusti in continua evoluzione, parlare ancora di “autenticità” culinaria è un esercizio sterile.
Il sushi in Italia non è la fine della cucina italiana. È, se vogliamo, una sua evoluzione. O almeno un sintomo del fatto che, sotto la superficie, gli italiani sono molto meno conservatori a tavola di quanto amino credere e soprattutto di quanto amino far credere a sé stessi e ai turisti.
E chissà che non arrivi il giorno in cui saranno i turisti giapponesi a venire in Italia per provare “il vero sushi italiano”.
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