La democrazia, il libero mercato, l'equa concorrenza. Valori che nello sport del Ventunesimo secolo scolorano al rango di petizioni di principio. Roba buona per organizzarci simposi del Panathlon o scriverci delle Carte da salutare solennemente, mano sul cuore. Ma poi all'atto pratico si scopre che lo scarto fra quei principi e la realtà è ampio e in via di incremento.

Nel mondo concreto vige una realpolitik che porta a assecondare gli squilibratissimi rapporti di forza politico-economica, senza guardare a come siano stati affermati e mantenuti. E rispetto a ciò le autorità dello sport osservano deferenti. Tessono relazioni diplomatiche coi peggiori autocrati e lasciano compiere l'abuso economico-finanziario agli oligarchi. Tanto più che sovente quegli stessi autocrati o oligarchi fanno parte dei consessi che governano lo sport internazionale e anzi grazie a questo status portano avanti delle operazioni di ripulitura dell’immagine.

Sportwashing

Si rendono presentabili, tessono relazioni diplomatiche facendo dello sport la politica proseguita con altri mezzi, dispensano momenti di gioia collettiva facendosi promotori di un orgoglio patriottico sapientemente manipolato. Il linguaggio odierno etichetta come sportwashing tale tipo di manovre. Che però pre-esistono all’etichetta, tanto quanto la pavidità di chi governa lo sport mondiale e non ha la forza (né la cerca) per mettere questi personaggi alla porta. Vengono lasciati abusare della loro forza. Sia essa politica o economica, ma anche repressiva. Nel meno peggio dei casi, le istituzioni dello sport internazionali lisciano il pelo all’idea della post-democrazia come regime meno peggiore fra i possibili. E se poi non possono proprio fare a meno di relazionarsi coi dittatori, se ne fanno una ragione.

Il caso Timanovskaja e il pugno di cotone 

Domani si è occupato del caso lo scorso 2 agosto, raccontando come il linguaggio dei giochi sia tornato a utilizzare un lessico da Guerra Fredda che riesuma la categoria dell’asilo politico. Ci riferiamo alla vicenda di Kristina Timanovskaja, la velocista bielorussa che il comitato olimpico e la federazione nazionali hanno richiamato dai Giochi perché ha osato criticare via Instagram alcune scelte tecniche, e che una volta in aeroporto a Tokyo si è rifiutata di tornare in patria temendo ritorsioni. All’atleta è stato poi garantito, dalla Polonia, un visto umanitario anziché l’asilo politico.

Probabile che il governo polacco non si sia voluto spingere fino a quel grado di azione diplomatica, ma al di là di ciò resta che Timanovskaja abbia dovuto rinunciare al ritorno nel proprio paese, così come resta un dato di fatto che il marito Arsenyi Zdanevich ne sia dovuto fuggire riparando in Ucraina. Rispetto a ciò vi era curiosità riguardo alle sanzioni che il Cio potesse assumere nei confronti dello sport bielorusso. La risposta è arrivata nella serata di giovedì e ancora una volta mette in mostra il pugno di cotone del Cio.

A due tecnici della nazionale bielorussa di atletica, Artur Shumak e Yuri Moisevich, è stato revocato l’accredito per i Giochi. Inoltre ai due è stato chiesto di lasciare il villaggio olimpico. Una sanzione giunta a 3 giorni dalla conclusione delle Olimpiadi e che non lascerà alcun segno. Quei segni che invece continueranno a essere portati da Kristina Timanovskaja, che ha affrontato ore di estrema tensione prima di arrivare all’aeroporto di Tokyo, dopo avere ascoltato al telefono le parole della nonna che l’avvertivano di come in patria venisse dipinta come una traditrice oltreché mentalmente instabile.

La vicenda dell’atleta bielorussa ha fatto esplodere una volta di più le contraddizioni interne al comitato olimpico internazionale, che non era stato capace di risolvere gli equivoci interni al comitato olimpico bielorusso, trasformato dal regime del dittatore Aleksander Lukashenko in una fra le tante leve del controllo sulla società. Ma il dossier bielorusso non è il solo a segnalare il rapporto equivoco fra il Cio e i regimi autoritari. Rimangono come un monito, forse persino come un manifesto, le parole del presidente della federazione internazionale dello sci, lo svizzero Gian-Franco Kasper (deceduto due settimane prima che iniziassero i Giochi di Tokyo) rispetto alla maggiore efficienza dei regimi autoritari o dittatoriali nell’organizzare le grandi manifestazioni sportive. In quei casi, disse Kasper, tutto fila liscio senza il minimo dissenso e con grande disponibilità di volontari. Quanto “volontari”, per Kasper, contava il giusto.

L’oligarchia che fagocita il calcio

Fantacalcio dell’estate: Lionel Messi al Paris Saint Germain e Romelu Lukaku al Chelsea. Così avremmo potuto etichettare i due trasferimenti fino a soltanto una settimana fa. Poi invece è arrivata la realtà e ci ha avvertito che questi due trasferimenti non sono poi così “fanta”.

Dalla serata di giovedì l’argentino è ufficialmente libero da ogni vincolo morale nei confronti dell’unica squadra di club che fin qui ha conosciuto da professionista, il Barcellona. Quanto al vincolo formale, era stato già sciolto il 30 giugno con la scadenza del contratto. Ma si riteneva non si sarebbe davvero arrivati a un divorzio che lascerà un segno nella storia del calcio globale. E durante queste settimane il presidente blaugrana Joan Laporta, che aveva fatto proprio del rinnovo di Messi il primo punto della sua azione di governo dopo la rielezione, aveva lavorato per raggiungere l’obiettivo.

Ma poi si è dovuto arrendere all’evidenza: in questo momento il Barcellona non ha le risorse economiche per tenersi il proprio giocatore simbolo. Le ha invece il Paris Saint Germain (Psg), massimo simbolo della nuova oligarchia economica del calcio globale. Proprio il Psg starebbe provando in queste ore a tesserare l’argentino, compiendo un’altra spesa esorbitante dopo quelle effettuate (tra diritti economici e ingaggi) nelle scorse settimane per Hakimi, Wijnaldum, Danilo Pereira, Donnarumma e Sergio Ramos. Una disponibilità illimitata di risorse per il club controllato dal fondo sovrano del Qatar.

Resa tale anche dal definitivo naufragio del Fair Play Finanziario (mandato in soffitta col pretesto dell’emergenza da Covid) e dal fatto che, dopo il fallito tentativo della Superlega, il presidente del club parigino Nasser Ghanim Al-Khelaïfi sia diventato il lord protettore di un sempre più debole presidente dell’Uefa, Aleksander Čeferin.

Ma lo strapotere degli oligarchi nel calcio viene confermato dalla società che per prima segnò nel calcio europeo questa svolta politico-economica, all’inizio del Ventunesimo secolo: il Chelsea di Roman Abramovich. Che nella scorsa stagione ha ripreso a spendere come ai primi tempi, con una potenza quasi intimidatoria, e che adesso è pronto a alzare l’offerta per portare a Londra l’attaccante interista Romelu Lukaku. L’ultima era stata di 120 milioni. Altri 100 milioni sarebbero stati offerti (e rifiutati) alla Juventus per Federico Chiesa. Si afferma la legge del più forte e fa un’ulteriore selezione darwiniana fra gli stessi club che erano stati parte del tentativo di Superlega (Chelsea) o venivano dati in predicato di entrarvi salvo tirarsene fuori in extremis (il PSG). La democrazia e l’equilibrio competitivo non sono più ammessi. E Fifa e Uefa rimangono a guardia del bidone.

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