La prima cosa certa, al momento, sull’incendio che ha devastato la zona sud-est della capitale è l’inquinamento dell’aria. Le fiamme hanno bruciato pneumatici, oli, plastiche facendo aumentare di cento volte, rispetto ai limiti di riferimento, le concentrazioni di diossina, secondo i rilevamenti effettuati dall’Arpa Lazio. La procura non esclude nessuna pista, verranno visionate le immagini delle telecamere della zona, ma il rogo, che ha distrutto l’area tra via Casilina e via Palmiro Togliatti, potrebbe esser partito dall’incendio di alcune sterpaglie.

La pista viene confermata anche da un investigatore che lavora al caso, e che precisa che è ancora da accertare l’origine dell’incendio: se accidentale o dolosa. In mezzo alla ridda delle ipotesi, qualcuno ha evocato la “mafia” o il “terrorismo ambientale”, che adombrano l’immancabile complotto contro l’amministrazione comunale. Ma l’unica certezza al momento è che l’incendio ha riguardato due situazioni critiche e note da decenni: le cataste dei rifiuti ammassate nell’area dell’ex campo nomadi di Casilino 900 e gli autodemolitori, molti irregolari, che dovrebbero svolgere le loro attività lontano dal perimetro urbano.

I rifiuti e l’ex campo rom

Nel 2010 la giunta dell’allora sindaco Gianni Alemanno ha sgomberato il campo rom di via Casilina, il più grande d’Europa. L’operazione è diventato uno spot elettorale per la giunta dell’epoca, da lì in avanti però l’area è diventata ricettacolo di piccoli insediamenti abusivi e di smaltimento illecito di rifiuti. Non è mai stata bonificata e restituita alla città. Un anno fa, i cittadini, insieme ad alcuni autodemolitori, hanno scavato e documentato la presenza di rifiuti di ogni genere.

«La zona da dove è partito l’incendio era stata demolita e sgomberata non più di un mese e mezzo fa e c’era un luogo di smistamento dei rifiuti. Da qui è iniziato il rogo, le fiamme hanno seguito la linea dei rifiuti per arrivare agli autodemolitori», dice Sabina Alfonsi, assessora all’Ambiente del comune di Roma. Non è chiaro da dove sia iniziato l’incendio, quello che è importante è comprendere l’utilità delle fiamme. Si brucia per recuperare il ferro avvolto da altro materiale, come la plastica, che viene venduto dalla criminalità ad alcune imprese compiacenti che si occupa di recuperare metalli.

Quando le cataste di pattume si accumulano, si usa il fuoco per fare spazio e consentire nuovi scarichi illeciti. È un modello produttivo che si svolge nell’ombra, che prevede la produzione in nero dei materiale e necessita di smaltimenti illegali.

A Roma, e non solo, alcune persone di origine rom allestiscono intorno ai campi, sfruttando degrado e abbandono, delle zone dedicate alla ricezione del pattume. Per ogni smaltimento ricevono poche decine di euro, alle quali aggiungono i guadagni della vendita del ferro e dei materiali che ricavano dalla selezione.

Non c’è nulla di nuovo, è una situazione nota da anni. Anche la storia degli autodemolitori è conosciuta da decenni: incrocia illegalità, proroghe, ricorsi e rappresenta una bomba ambientale da tempo. Ma soprattutto le due questioni si intrecciano.

Gli sfasciacarrozze

«Nella consapevolezza che l’humus su cui proliferano i roghi tossici e il traffico illecito di rifiuti, perpetrati costantemente dagli ospiti dei campi rom, è costituito dalle irregolarità nella filiera dei rottamatori, il tavolo prefettizio si è fatto promotore di un’intensa attività di verifica degli esercizi di rottamazione e autodemolizione (...). Nello stesso contesto è stato avviato un piano di controlli sugli esercizi di demolizione e rottamazione e su tutti i siti di stoccaggio di materiali ferrosi, indicati in una black list prodotta dalla Polizia di Roma capitale, con il concorso del gruppo Carabinieri forestale di Roma (...), della polizia locale della città metropolitana», si legge nella relazione sugli incendi negli impianti di rifiuti, approvata dalla commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie a luglio 2021.

Impianti irregolari e non, spesso, hanno preso fuoco in modo anomalo, fiamme salvifiche che liberano i titolari dall’incombenza di smaltire i rifiuti risparmiando sui costi di trattamento.

L’origine dell’ultimo rogo di sabato, però, potrebbe essere riconducibile all’incendio di alcune sterpaglie che poi, a causa del vento, si è allargato agli impianti di autodemolizione. «Gli “sfasciacarrozze” per anni hanno inquinato la nostra città. Molti sono abusivi. Altri, anche se regolari, vanno rilocalizzati in aree della città idonee alla loro attività», scriveva sui social Virginia Raggi, già sindaca della capitale, lo scorso ottobre. «Dal 1997, il comune di Roma avrebbe dovuto fornire aree disponibili, quando lo ha fatto sono risultate problematiche e indisponibili. La giunta Raggi, invece, si è solo limitata a non rinnovare le autorizzazioni senza offrire alternative», dice Elena Donato, presidente dell’associazione romana demolitori e rottamatori.

Su via Palmiro Togliatti, gli sfasciacarrozze abusivi sono una ventina, altrettanti sono quelli con le autorizzazioni scadute nel 2018. Sulla lunga vicenda è intervenuta anche la corte Costituzionale.

Alcune aziende hanno fatto ricorso contro la bocciatura della richiesta di proroga dell’autorizzazione. «Attualmente i progetti presentati da alcuni impianti per la delocalizzazione sono al vaglio della regione Lazio, che deve valutarli visto che la Corte Costituzionale ha stabilito che la competenza amministrativa sul settore non è più del comune di Roma», dice l’avvocato Luca Zerella che ha presentato il ricorso al tribunale amministrativo regionale.

La diatriba è iniziata nel 1986, nel 1997 è stato siglato un accordo di programma, nel 2009 il comune con una delibera ha disposto lo spostamento degli sfasciacarrozze da via Palmiro Togliatti prevedendo nuove destinazioni, rimaste solo su carta. Il settore per anni a Roma, mentre nel resto d’Italia dal 2003 avveniva la delocalizzazione, è rimasto gestito con logiche emergenziali in mano a un commissario, scelta che ha contribuito al fallimento finale.

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