L’8 marzo 2020 nel carcere di Modena si è consumata quella che un detenuto ha descritto come “la più grande macelleria della mia vita”. Durante una sommossa carceraria e nei momenti successivi sono morti in nove per overdose da metadone ed è stata la peggiore strage del dopoguerra in un penitenziario italiano. Nelle stesse ore altre quattro persone hanno perso la vita in circostanze simili nelle prigioni di Rieti e Bologna.

Qualche mese dopo Domani ha rivelato che il 6 aprile 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere era avvenuta quella che il gip Sergio Enea ha definito «un’orribile mattanza» nei confronti dei detenuti, in risposta a una rivolta del giorno prima. Decine di agenti sono finiti a processo con l’accusa di tortura, un fatto senza precedenti in Italia. Nel gennaio 2021 a Ferrara c’è stata la prima condanna definitiva per tortura in Italia nei confronti di un agente, ritenuto colpevole di aver agito con crudeltà e violenza grave contro un detenuto. Un mese dopo la stessa pena in primo grado ha riguardato altri agenti per fatti simili nel penitenziario di San Gimignano.

Nel 2020 le carceri italiane hanno fatto registrare il record di suicidi dell’ultimo decennio: secondo i dati dell’associazione Antigone, 61 detenuti si sono tolti la vita in cella. Bisogna tornare al 2009 per trovare numeri simili. Nel gennaio 2022 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, per aver trattenuto nel carcere di Rebibbia un 28 enne affetto da disturbi psichici negandogli le cure di cui aveva bisogno.


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Punto di non ritorno

Violenze, torture, suicidi, privazione del diritto alla salute, condanne nazionali e internazionali. Quelli citati sono alcuni degli episodi avvenuti nelle carceri italiane nell’ultimo biennio e raccontano bene le criticità che sta vivendo il sistema penitenziario. «Io un punto così basso per le carceri italiane non l’avevo mai registrato», ha detto Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino. Sicuramente la pandemia ha avuto un ruolo in questo deterioramento ma non è che prima andasse tutto bene.

Problemi storici a cui ci si era drammaticamente abituati sono solo tornati di attualità. Per esempio il sovraffollamento. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Cedu nella sentenza Torreggiani perché non garantiva ai detenuti uno spazio dignitoso, ma negli anni successivi il numero dei carcerati ha continuato ad aumentare.

Quando è arrivato il Covid-19 e certe precauzioni come il distanziamento sociale e l’areazione degli ambienti si sono imposte nella quotidianità del mondo esterno, è apparso evidente che lo stesso non potesse accadere in un luogo come il carcere, in quel momento popolato da 61.230 detenuti contro una capienza di 50.931.

Con il passare dei mesi si è riusciti ad alleggerire la densità penitenziaria, ma ora che la fase emergenziale più dura è passata le carceri italiane sono tornate ad accogliere ben più persone di quante potrebbero, con istituti come quello di Taranto o Brescia che fanno registrare tassi di riempimento vicini al 200 per cento.

La pandemia ha anche sconvolto la quotidianità già precaria dei detenuti. Per ridurre al minimo i contatti con l’esterno sono stati sospesi i colloqui, interrotte le lezioni universitarie e scolastiche, annullati i laboratori. La quasi totalità delle attività interne, fondamentali per i detenuti dal punto di vista psicologico, si sono dissolte da un giorno all’altro. E la popolazione carceraria si è trovata ancora più sola di quanto già non fosse.

Il malessere crescente ha fatto scoppiare nuove rivolte che sono state anche l’occasione per ricordarsi di come in Italia ci sia un problema di abuso di potere, lo stesso che sporcava di sangue le strade di Genova nel 2001 e che poi è passato dalla Ferrara di Federico Aldrovandi e dalla Roma di Stefano Cucchi.

Troppi silenzi

Per quanto di tutte queste problematiche carcerarie legate al malessere e agli abusi si stia finalmente iniziando a parlare, intorno a esse rimane un grande silenzio. Si sa dei grandi scandali che riguardano il sistema penitenziario italiano e non si sa di tutto il resto, del modo in cui scorre la quotidianità dei detenuti anche quando le cose vanno, più o meno, come dovrebbero andare. Ed è invece proprio qui, in questa apatica normalità, che si ritrova il livello di disagio maggiore quando si osserva il carcere in Italia.

L’inchiesta “Carcere, inferno quotidiano”, che chiediamo ai lettori di sostenere attraverso il nostro sito editorialedomani.it, indagherà in profondità per raccontare quello che, giorno per giorno, le sbarre nascondono.

Gli effetti della detenzione

Il carcere non ha smesso di essere una pena corporale, nonostante il passaggio da pena come supplizio a pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli. La detenzione abbrutisce, il corpo decade, l’incarcerazione provoca un’involuzione precipitosa di tutta la sensorialità.

Si abbassano le difese immunitarie e la vista cala perché lo sguardo del detenuto è tagliato dalla vicinanza delle mura esterne e delle pareti divisorie. La messa a fuoco è corta, si perde la distanza, la linea dell’orizzonte, svaniscono i colori. Anche l’olfatto è anestetizzato dall’aria stagnante.

L’udito in un primo momento si acutizza - la prigione è un luogo di rumori incessanti tra porte blindate che sbattono, chiavi che girano, urla, lamenti - ma in alcuni casi può sopraggiungere la sordità come difesa.

Del corpo si perde presto la percezione totale: gli specchi a disposizione di un carcerato bastano appena a vedersi il viso, quando mancano anche quelli ci si rade con il retro dei cd, uno degli strumenti di svago che insieme alle radioline, ai dvd e alle lettere con francobolli sempre più difficili da trovare sul mercato, relegano la popolazione carceraria a un tempo irreale, fermo agli anni ’90. Da qui anche il senso di vertigine e spaesamento che spesso segue la scarcerazione.

Quotidianità malsana 

Il carcere non è solo un luogo dove si tenta il suicidio o ci si dedica all'autolesionismo. È più spesso un luogo dove il dolore assume forme opache, simili a un sonno cosciente. La vita quotidiana di un detenuto è fatta di piccoli sforzi di resistenza al tempo che scorre vuoto e sempre uguale: la televisione è il più potente anestetico insieme alla “terapia”, ovvero gli psicofarmaci che vengono distribuiti la sera, prima della chiusura delle celle. Un detenuto su due in Italia ne fa uso, non solo per tenere a bada disturbi psichici, ansia e depressione, ma anche per far scorrere le giornate.

Il fine settimana e l’estate sono i periodi in cui se ne assumono di più perché l’isolamento si acuisce, i volontari non entrano, le attività vengono sospese. E allora si dorme, si resta a letto per giorni interi, ci si ribella così alla formula, ripetitiva e presto soffocante pronunciata dagli agenti tre volte al giorno al detenuto che vuole lasciare la cella: «Aria, saletta o doccia?» - i tre vettori della fuga dagli spazi angusti di quelle celle spesso sovraffollate. E aria vuol dire “passeggio”, che a sua volta indica un cortile claustrofobico in cui girare in tondo, ogni giorno, per anni. Il lessico carcerario è fatto di “domandine”, le richieste interne dei detenuti agli agenti, frequenti e totalizzanti come quelle di un bambino alla maestra.

Il detenuto è infantilizzato, deresponsabilizzato, riportato allo stadio infantile della vita. Deve aspettare che si aprano le porte, che venga accolta o negata una richiesta, non ottiene spiegazioni sui dinieghi. In carcere si sente spesso dire che meno chiedi e meglio è, più accondiscendi alle rodate logiche di spoliazione della personalità e più simpatico risulterai a chi può decidere se farti avere o meno ciò che ti spetterebbe di diritto. È difficile immaginare cosa voglia dire poter parlare al telefono con i figli solo dieci minuti a settimana, dover scegliere le parole da dire, che cosa omettere e che cosa raccontare o come spartire un tempo così limitato tra le persone care. Più facile forse è immaginare il fastidio di mangiare con le posate di plastica, come in un picnic al parco quando inizia la primavera, e la tortura di dover mangiare sempre così per anni, per decenni, colazione, pranzo e cena.

Il carcere è, insomma, un luogo di piccoli soprusi quotidiani. L’espropriazione di ogni riservatezza ed intimità, l’azzeramento della sfera sessuale e le continue privazioni e umiliazioni fanno crescere nei detenuti rabbia e frustrazione, a discapito del fine rieducativo.

Sembra che alla pena definita dal dettato costituzionale si aggiunga la pena supplementare inflitta quotidianamente per mezzo di piccole torture spesso legalizzate, altre volte fuori da ogni regola. Il fatto che oggi il tasso di recidiva sia al 70 per cento racconta il fallimento di un’istituzione che reclude e non reinserisce.

Un’istituzione caratterizzata da piccoli abusi, ripicche, complicazioni burocratiche, imposizioni securitarie che fanno meno rumore delle storie di Santa Maria Capua Vetere e di Modena ma sono parte dello stesso racconto e forse aiutano a comprenderlo meglio. Drammi che esistono da sempre e che la pandemia ha solo aggravato.


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