La nuova tendenza negli Stati Uniti è dimettersi, sbattere la porta. Se n’è accorto all’inizio della pandemia un professore dell’università del Texas, Anthony Koltz, e ha iniziato a studiare il fenomeno. Da allora si contano 50 milioni di americani che hanno deciso di lasciare il lavoro volontariamente. Hanno fatto questa scelta per curare figli o parenti malati o perché stanchi dell’impiego che avevano. Koltz l’ha denominata Great Resignation (dimissioni di massa) e gli scienziati sociali su entrambe le sponde dell’Atlantico si si interrogano su origini e conseguenze di questa generale insoddisfazione lavorativa. Ma rimane il fatto che poche di queste persone che hanno dato le dimissioni sono rimaste a casa con le mani in mano. Negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è stato a marzo il 3,6 per cento, il più basso degli ultimi cinquant’anni, pienamente nei limiti della piena occupazione.

Il caso italiano è opposto. Abbiamo due record negativi, il più alto tasso di inattività dell’Europa sviluppata (31,2 per cento, un terzo della popolazione in età di lavoro, tra i 20 e i 64 anni) e una delle percentuali più alte di disoccupazione, il 9,2 per cento. E bisogna ricordare che la statistica include i disoccupati tra gli attivi, in quanto figurano alla ricerca di un impiego. In Italia il lavoro non si lascia come negli Stati Uniti, più facilmente si perde. E quello che si ritrova è pagato sempre meno, più precario, intermittente. I disoccupati sono l’esercito industriale "di riserva" che serve a comprimere le condizioni di lavoro di tutti, si direbbe in base ai vecchi testi classici.

L’inchiesta

Fino a che punto tutto ciò è sostenibile? Quanto e come l'inselvatichimento del mercato del lavoro sta corrodendo il tessuto sociale? Con l’inchiesta “Geografia dello sfruttamento dei lavoratori”, che chiediamo ai lettori di sostenere, puntiamo a scoprire giorno per giorno, là dove si nasconde lo sfruttamento marginale, le persone e le storie intrappolate nelle pieghe di questa involuzione dell’economia. L'obiettivo è di ricostruire come la mappa delle ingiustizie si stia modificando, anche geograficamente, da nord a sud, e come le scarse tutele si stiano diffondendo per osmosi anche a settori un tempo considerati "garantiti". Anche nei servizi essenziali, quelli di cui la società non poteva fare a meno durante il lockdown e che quindi ci si aspetta di trovare più preziosi, più tutelati e meglio retribuiti.


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Emergenza e disuguaglianze

Le diseguaglianze si sono ampliate durante l’emergenza Covid anche dal punto di vista occupazionale. Stanno venendo a galla, come nel caso dei 4 milioni di lavoratori autonomi - o finti autonomi - la metà dei quali ha avuto bisogno dei bonus statali per sopravvivere durante la pandemia. Segnalano l'emergenza sociale i casi emblematici scoperti dalle inchieste del nucleo dei carabinieri per la tutela del lavoro: emerge uno sfruttamento che rasenta lo schiavismo, soprattutto nell'agricoltura e nella logistica, ma non solo. E suonano l'allarme le associazioni di giuristi e avvocati impegnati nelle cause di lavoro. Il lavoratore è a disposizione con sempre meno possibilità di rivendicare i propri diritti. L’associazione di avvocati del lavoro “Comma2” ha chiesto i dati al ministero della Giustizia: dal 2014 al 2020 il contenzioso presso i giudici del lavoro è calato di oltre il 32 per cento, sia nel pubblico che nel privato.

«Sempre meno persone si rivolgono al giudice del lavoro, anche perché sempre più spesso i giudici condannano il lavoratore a pagare le spese legali, anche quelle dell’azienda. Senza contare il contributo unificato, una tassa, per chi ha redditi familiari sopra i 35 mila euro, quindi solo chi è molto povero è esentato», spiega Alberto Piccinini, presidente di Comma2. «Quando è nato il nuovo processo del lavoro negli anni ‘70 l’idea era di ristabilire un equilibrio nel rapporto di potere, naturalmente impari, tra azienda e lavoratore. I giudici inizialmente avevano bene in mente questo principio quando sceglievano il tribunale del lavoro, adesso è diventata una sezione come un altra». I dati di Comma2 sono confermati dalle esperienze di un’altra associazione giuslavorista: «Si comincia ad avere timore del contenzioso e se ne fa un uso molto limitato - spiega Aurora Notarianni dell'Agi, Associazione Giuslavoristi Italiani - non ci sono più cause sulle questioni retributive, sulle mansioni, sulla sorveglianza». Fa paura la lentezza della giustizia ma anche il rischio di dover pagare le spese legali dell’azienda: «Il lavoratore pubblico demansionato si fa due calcoli, si rende conto che deve spendere 10 mila euro e rinuncia. Si tiene il demansionamento».

C'è un enorme problema salariale che discende dall’alta disoccupazione e si riflette in un gap di competitività del sistema, una competizione giocata sul taglio del costo del lavoro e sullo sfruttamento intensivo delle persone piuttosto che sugli investimenti e sull’innovazione tecnologica. Anche Carlos Tavares, amministratore delegato del gruppo Stellantis (Fca-Psa), nell’intervista al Corriere della Sera del 19 gennaio scorso ha riconosciuto che il costo del lavoro in Italia è più basso ma non impedisce alle sue fabbriche italiane di avere costi di produzione più alti rispetto a quelle in altri paesi europei. La corsa al ribasso delle retribuzioni finisce per funzionare da disincentivo per l’innovazione e per generare inefficienza.

I salari

I salari italiani, segnala il centro studi Inapp-ministero del Lavoro, dopo quasi un quindicennio di sostanziale stagnazione, restano in Italia molto più bassi che nel resto dei paesi avanzati. L'Italia è l'unico paese europeo in cui i salari, dal 1990 a oggi, sono diminuiti. Alla vigilia della pandemia, secondo i dati Inps elaborati dalla fondazione Di Vittorio, il salario lordo medio annuo dei 15 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato era inferiore ai 22 mila euro, inferiore grosso modo di un quarto a quello di tedeschi e francesi.

Dopo due anni di pandemia, e ora con la guerra in Ucraina, la situazione non sembra affatto migliorata. Nel 2019 l’Italia era l’unico paese tra le sei maggiori economie europee a non aver ancora recuperato il livello salariale che aveva prima della crisi finanziaria del 2008. A fronte di 19,636 milioni di lavoratori dipendenti con contratti diversi, sia a tempo determinato che indeterminato, cala il totale del monte ore lavorato. Ma l’Istat considera occupato chi lavora anche un’ora in una settimana, e stima che i dipendenti lavorano mediamente 28 ore alla settimana, quindi si dividono le ore di lavoro (e il salario) di 13,7 milioni che lavorassero normalmente otto ore al giorno.

i contratti

La ripresa dell’occupazione dopo la pandemia c’è stata soprattutto grazie ai contratti a tempo determinato: nei primi 10 mesi del 2021 su 603 mila nuovi posti di lavoro 458.810 sono a tempo determinato, il 76 per cento. Si tratta di contratti sempre più corti. Sono 5,2 milioni (più di un quarto) i lavoratori dipendenti discontinui con un reddito medio annuo intorno ai 10 mila euro lordi. Secondo l’Istat sono per il 58,6 per cento contratti fino a 6 mesi, di cui il 39,5 per cento per meno di 30 giorni e il 13,3 per cento di un solo giorno. Solo lo 0,9 per cento dei contratti a tempo determinato ha durata superiore ad un anno. Mentre si stanno diffondendo, come segnala anche un recente studio Inapp-Luiss, contratti anche ripetuti ma di appena due o tre giorni alla volta: lavoro puntiforme.

Sappiamo dunque che l’Italia, al contrario degli Stati Uniti, soffre di una grande piaga che si chiama disoccupazione e che la statistica tende a edulcorare. Per l’Istat è disoccupato chi non ha lavoro ma lo sta cercando attivamente ed è disponibile da subito. La disoccupazione ufficiale è rimasta nel 2020 al tasso del 9,2 per cento. Nel 2021 non abbiamo recuperato i livelli di occupazione pre Covid, eppure è un dato che non dice tutta la verità. La fondazione Di Vittorio ad esempio propone di considerare un indice di disoccupazione sostanziale che include alcune categorie di inattivi assimilabili ai disoccupati - persone che sarebbero disponibili ad accettare un lavoro ma non lo cercano: spesso perché scoraggiati o bloccati dal dover prendersi cura di familiari anziani o parenti disabili, oppure ancora in attesta di una risposta. Molte sono donne e giovani sotto i 35 anni.

Seguendo la tassonomia della fondazione Di Vittorio la disoccupazione sostanziale raggiunge per il 2020 il 14,5 per cento, cinque punti più alta di quella ufficiale e molto più lontana dai paesi europei più sviluppati come Francia e Germania. Nel puzzle che si va formando la tessera successiva è quella della categoria dei lavoratori fragili. Quelli con contratti atipici, non standard, non a tempo indeterminato, che soffrono di grandi intermittenze lavorative: occupati sì, ma che per larga parte del tempo in verità sono disoccupati. Sono ad esempio le donne costrette ad accettare contratti part time involontari. O anche gli esodati e i trentenni diplomati o laureati con figli a carico costretti mansioni di bassa qualifica a meno di nove euro l’ora.

La disoccupazione è ciò che ricatta il lavoratore, gli fa accettare ad esempio un contratto pirata che non rispetta i minimi e le tutele dei contratti nazionali siglati dai sindacati maggiormente rappresentativi. Ci sono attualmente oltre 600 contratti diversi che vengono imposti ai lavoratori per fare dumping contrattuale, mentre oltre 6 milioni di lavoratori dipendenti aspettano un normale rinnovo contrattuale e magari un ristoro dal riaccendersi dell’inflazione a tassi quasi americani.

In questi due anni di sofferenza pandemica non sono stati eliminati i paradossi italiani del mondo del lavoro: siamo ancora la nazione europea dove si lavora di più e si viene pagati di meno. In base alle rilevazioni Eurostat abbiamo la quota più alta di ore lavorate in un anno e l’incidenza più bassa del loro valore monetario sul Pil. Se i lavoratori hanno a disposizione una quota così bassa di ricchezza prodotta così bassa tutto il sistema economico rischia di farne le spese. I bassi salari significano basse contribuzioni previdenziali e mettono a rischio il sistema pensionistico, delineando un futuro nel quale insieme all’autunno demografico avremo una povertà generalizzata e un impoverimento del welfare per restringimento della base contributiva. Non una bella prospettiva neanche per mettere in cantiere un qualsiasi progetto.


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