Esattamente 80 anni fa, il 6 aprile del 1941, la Germania nazista e l’Italia fascista invasero la Jugoslavia. Nel giro di due settimane il paese venne conquistato e la Jugoslavia fu sottoposto a più di tre anni di brutale occupazione.

È una pagina quasi dimenticata della nostra storia e una di quelle di cui andare meno fieri. Nell’agosto del 1942, ad esempio, il comandante dell’XI corpo d’armata, generale Mario Robotti, scriveva ai suoi sottoposti, tutto in maiuscolo: «Si ammazza troppo poco!». Si riferiva alla sua sorpresa nello scoprire che in un gruppo di 73 prigionieri nessuno era stato ucciso per dare l’esempio. 

Non erano soltanto i generali come Robotti o il suo superiore Mario Roatta a spingere affinché l’occupazione fosse il più severa possibile. La violenza filtrava dagli stati maggiori fino alla truppa, spesso stanca, affamata e circondata da una popolazione ostile in cui abbondavano i partigiani.

Un giovane alpino italiano scrisse questo resoconto di un’azione di rappresaglia: «Dopo aver passato a Podgorica un paio di giorni ci siamo mossi verso un passo poco lontano  dove i partigiani hanno attaccato una delle nostre colonne. Trentotto veicoli erano stati distrutti, i guidatori e la scorta massacrati - tutti quanti! I loro corpi erano mutilati. Un ordine viene fatto circolare: due giorni di carta bianca. Abbiamo distrutto o almeno siamo presenti mentre viene distrutta qualsiasi cosa incontriamo sulla nostra strada. I nostri “veci” sono i principali esecutori. Noi siamo scioccati e inorriditi dalle grida dei soldati e dal terrore degli abitanti impotenti...Questa è la prima indimenticabile esperienza di una realtà che ci fa vergognare come uomini».

Durante l’occupazione, italiani e tedeschi commisero ogni sorta di atrocità e crimine di guerra, spesso sfruttando le divisioni etniche e religiose che attraversano il paese. I partigiani jugoslavi, comunisti e nazionalisti, rispondevano con quasi altrettanta brutalità. Dopo che in una zona erano passati i croati alleati dei fascisti a bruciare i villaggi dei serbi ortodossi, spesso arrivavano i partigiani, che bruciavano i villaggi croati o quelli dei loro alleati bosniaci musulmani. 

La violenza etnica scatenata dall’invasione fu uno dei fattori a mettere in moto i meccanismi che nel 1943 e poi nel 1945 portarono alle rappresaglie contro gli italiani, collettivamente ricordate come “le Foibe”. In tutto, si stima che almeno un milione di jugoslavi morirono nell’occupazione e nella guerra civile, quasi o più del doppio di tutti gli italiani, i francesi, i britannici o gli americani morti nel conflitto.

Ma mentre in Jugoslavia la memoria di quegli eventi è stata serbata a lungo, nel bene e nel male, e ha costruito le basi delle profonde rivalità che sarebbero sbocciate mezzo secolo dopo con il conflitto che avrebbe definitivamente diviso il paese, in Italia il periodo dell’occupazione venne rapidamente dimenticato.

Ufficiali come Roatta o Robotti vennero prosciolti o non furono mai processati, mentre si diffuse il mito degli “italiani brava gente”: soldati al servizio del regime fascista, certo, ma animati da uno spirito bonario e caritatevole che gli avrebbe impedito di commettere i crimini compiuti dai tedeschi.

Soltanto negli ultimi anni storici e divulgatori, tra gli altri Eric Gobetti e Carlo Greppi, hanno iniziato un difficile lavoro per riportare questi eventi alla memoria, lottando contro una versione della storia parziale e assolutoria che dipinge gli italiani esclusivamente come vittime.

Anche grazie al loro impegno, qualcosa sta iniziando a cambiare. Lo scorso luglio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno Borut Pahor, hanno visitato insieme il memoriale di Basovizza, dove hanno ricordato i morti italiani nelle Foibe e le vittime slovene dello squadrismo e del regime fascista.

Ma la strada da percorrere per rimarginare definitivamente le ferite della storia è ancora lunga. Centoquaranta storici italiani hanno firmato in questi giorni un appello promosso da Gobetti per chiedere al presidente della Repubblica di esprimere una «netta condanna» e una «presa di distanza radicale» dell’invasione e dell’occupazione della Jugoslavia.

Né la condanna né la presa di distanze sono ancora arrivate. Nel frattempo, un’istituzione come la Marina Militare, per cui la tutela delle sue responsabilità in tempo di guerra dovrebbe essere fondamentale, ha celebrato proprio in questi giorni una serie di azioni militari compiute proprio nei giorni dell’invasione della Jugoslavia, senza nemmeno tentare di problematizzarle o di fornire loro un adeguato contesto storico.

La verità è che la vicenda del confine orientale e quella della Seconda guerra mondiale più in generale sono ancora materia politicamente incandescente, con una parte della destra, non solo quella neofascista, che continua ad utilizzarle come un’arma di lotta politica. In questo modo, la ferita continua a restare aperta e sanguinante. Soltanto le cure pazienti degli storici possono rimarginarla.

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