Un’Italia meno sedentaria, un po’ più sportiva, ma soprattutto che vuole muoversi, passeggiando, pedalando, facendo esercizi, su un ponte, in un parco o persino a casa o nel cortile condominiale, magari con una app che ti dà un mano.

È la fotografia scattata dall’Istat e presentata dal presidente Francesco Maria Chelli con tanto di stato maggiore dello sport italiano, ministro Andrea Abodi in testa con i nuovi presidenti del Coni e del Comitato Paralimpico, Luciano Buonfiglio e Marco Giunio De Sanctis, che hanno parlato di «una sola giacca per lo sport italiano» e «dialogo istituzionale» fra i vari soggetti del sistema.

«La vita prosegue, non c’è stato nessun cataclisma, ma un confronto leale», ha detto Abodi. Così le tabelle hanno superato i veleni elettorali. Per fortuna i numeri sono decisamente più corposi di quegli 81 grandi elettori che hanno eletto il nuovo presidente del Coni e che dovrebbero essere rappresentativi di qualcosa come 16 milioni di tesserati tra federazioni ed enti di promozione. Senza dirigenti, tecnici e giudici ci attestiamo a 14 milioni e 687mila atleti. Gli italiani che praticano lo sport in maniera “continuativa” o “saltuaria” sono invece ben 21 milioni e 500mila. Ma se poi aggiungiamo i 17 milioni che hanno dichiarato di praticare qualche “attività fisica”, arriviamo a una cifra di “motori non tesserati” che tocca i 24 milioni.

Il trionfo dello sport o dell’attività fai da te. Il vero vincitore del rilevamento ottenuto negli 800 comuni e fra le 25mila famiglie prese in considerazione dal campione dell’indagine I cittadini e il tempo libero perché mentre gli “sportivi” crescono dal 36,9 al 37,5, questa categoria aumenta di quasi due punti, dal 27,9 al 29,7, e ha la maggior parte del merito della riduzione della sedentarietà, dal 35 al 32,8 prendendo in considerazione il confronto con l’inchiesta Istat del 2023 su “aspetti della vita quotidiana”.

Si tratta di quella famosa «domanda che non riusciamo a prendere» di cui parla Diego Nepi Molineris, amministratore delegato di Sport e Salute. Individuando nei cosiddetti «spazi non convenzionali» il palcoscenico in cui riuscire a intercettare, anche fuori dall’impiantistica tradizionale, questo desiderio di movimento (non solo di sport) che si avverte nella comunità Italia.

Le cifre

A rafforzare il concetto c’è anche la classifica delle attività sportive più in crescita: il gruppo ginnastica-aerobica-fitness-cultura fisica, che si presta a una pratica anche oltre la palestra tradizionale, trionfa fra le donne e comunque è in testa anche nella classifica generale passando in 9 anni dal 25,2 al 33,1; cresce parecchio anche l’area atletica-footing-jogging (dal 16,8 al 18,3). Faticano un po’ di più il solito calcio (dal 23 al 20,1), ma anche gli sport acquatici. Mentre il padel trascina gli “sport della racchetta” a una crescita che probabilmente ancora non traduce del tutto il boom di interesse legato a Sinnermania e dintorni (dal 5,7 all’8,5).

Dietro i macrodati, che comunque parlano di un livello di sportivizzazione mai raggiunto in Italia, i dati si scompongono e spiegano una serie di criticità. Non negate da Abodi che sottolinea la duplicità degli obiettivi dell’intervento pubblico: «Da una parte il medagliere che ci rende fieri, dall’altra il miglioramento della qualità della vita delle persone». Campioni e non solo, insomma. Prendiamo per esempio il divario di genere. Se nell’attività sportiva il gap è ancora consistente, nel settore “qualche attività fisica” è la componente femminile a trascinare la crescita. Insomma, il sistema sportivo organizzato non riesce ad avere l’appeal sufficiente per conquistare fasce di pubblico che hanno meno tempo e magari, ipotizziamo noi, sono più lontane da un approccio “prestativo” dell’attività. Poi, il sud: la forbice è più o meno sempre la stessa. Fra il 43,9 per cento di sportivi del Nord Est e il 27,9 del Mezzogiorno c’è una distanza che fa sempre paura. Un altro dato di riflessione per il “sistema”: l’aumento del drop out, la moltiplicazione degli abbandoni. Cioè: provo a fare sport, ma poi smetto. Non solo una questione di età, il fenomeno colpisce anche la fascia 10-24 anni: nel 2024 un milione e 560mila giovani hanno lasciato. Perché?

Le disparità

C’è poi un’altra disparità che colpisce: se vivi in un quartiere di una grande città nel 42,7 per cento dei casi pratichi lo sport, in un centro sotto i duemila abitanti la percentuale scende al 29,7. Abodi cita l’operazione playground nei piccoli comuni del sud (poco più di 1200 realizzati sui 1568 previsti), ma evidentemente il problema non è solo di strutture, ma anche di presidi organizzativi, resi sempre più fragili fra crisi demografica e spopolamento in direzione grandi centri urbani.

Dunque il “piccolo” va aiutato. “Piccolo” nel senso che è proprio la sofferenza della società sportiva meno grandi, assalite burocraticamente anche dall’impatto della riforma del lavoro sportivo, che rischia di indebolire le opportunità nei contesti più difficili. E qui c’è anche un problema di risorse. Pensate alle difficoltà per associazioni basate sul volontariato di ambire a finanziamenti pubblici che generalmente sono destinate a realtà più grandi, più strutturate, e con il commercialista a portata di mano. Aiutare il “piccolo” è dunque una priorità per rendere il sistema più capace di rispondere a una domanda disordinata ma massiccia.

Facciamo un altro esempio. Fra i dati salienti c’è la crescita anche della popolazione sportiva Over 65, il dato sottolineato da Beniamino Quintieri, presidente dell’Istituto per il Credito Sportivo e Culturale. Il segno positivo più forte anagraficamente riguarda l’attività sportiva nel segmento scolastico a cavallo fra la scuola primaria e la secondaria di primo grado. Questo farebbe pensare a un primo effetto della riforma che ha introdotto in quarta e quinta elementare il docente specialista (settembre 2022): la ricerca non fotografa lo sport scolastico ma è chiaro che il rafforzamento delle scienze motorie può essere un volano anche per le attività pomeridiane.

E allora ecco la domanda: anziché innamorarsi della riproposizione dei Giochi della Gioventù, una forzatura contestata da più parti anche per la sua complessità organizzativa, non sarebbe più giusto aumentare le risorse per i docenti di educazione fisica e conseguentemente per i gruppi sportivi pomeridiani, insomma per l’attività del giorno dopo giorno?

© Riproduzione riservata