Settembre 1985. Mentre Calvino lotta tra la vita e la morte in sala operatoria, il giovane cronista-narratore è diviso tra l’ansia per lui e la paura per Giorgio S., forse rapito da terroristi. Ricordi, ironie e speranze si intrecciano in un sabato teso, che sembra avviarsi a un inatteso lieto fine
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
(Riassunto puntate precedenti. Siena, 7 settembre 1985, antico ospedale di Santa Maria della Scala. Un giovane cronista, narratore in prima persona di questo romanzetto, aspetta l’esito dell’operazione a cui è sottoposto lo scrittore Italo Calvino, ma anche notizie di un suo collega, quasi un padre per lui, forse caduto in un agguato terroristico)
Italo Calvino è sul tavolo operatorio del vecchio ospedale mentre un’équipe di medici e infermieri tenta di salvargli la vita. Non distante da lì, verso Grosseto, il mio amico Giorgio S., cronista di nera, è probabilmente incappucciato e legato mani e piedi nel baule di una automobile. Alla guida c’è un terrorista che spera di non imbattersi in un posto di blocco della polizia. Costui fa parte della banda che si appresta a processare e condannare a morte Giorgio S., colpevole di essere l’autore dell’inchiesta che ha permesso di individuare e arrestare alcuni militanti del gruppo.
È quasi l’una e sono preso tra due fuochi, una tensione quasi insopportabile per un ragazzo di nemmeno trent’anni e che, in realtà, se ne sente tutt’al più una ventina. Desidererei essere altrove. Magari, come in un giorno ormai lontano, disteso al sole sulla spiaggia di Cala Violina (non è lontana, un’ora e mezza di macchina a velocità di crociera), assieme a Lauretta, la mia ex fidanzata. Soltanto noi due come se il mondo fosse stato spopolato dalla Bomba N, quella che cancella la gente ma non le cose. Lauretta, in bikini bianco, mi sta spiegando perché la spiaggia si chiama così. Per farmi capire, prende una manciata di sabbia e la strofina tra le mani. Il suono che ne viene fuori somiglia a quello di un violino. Chiudo gli occhi e penso a Anonimo Veneziano, un film (tratto da un dramma di Giuseppe Berto) che ho amato moltissimo, ma non l’ho detto mai a nessuno. Negli anni Settanta essere sentimentali era quasi un reato. Lauretta si leva il bikini…
All’antico ospedale di Santa Maria della Scala, l’unico suono è quello delle sirene delle ambulanze in arrivo o in partenza. Sono qui per raccontare, nella maniera più oggettiva possibile, il malore che ha colpito un celebre scrittore e i tentativi in atto per guarirlo, ma sono distratto da un pensiero. Il chirurgo che sta eseguendo l’intervento si chiama Gambarotta. Non sarà pertinente, ma non mi pare il nome giusto per il medico da cui dipende l’ulteriore esistenza di Calvino nel mondo. Siate sinceri: sareste tranquilli se il medico a cui state consegnando la vostra vita portasse un cognome del genere? Non chiedereste con le ultime, residue energie un medico che si chiami in un’altra maniera?
Parlo per esperienza personale. A quattordici anni fui ricoverato d’urgenza per un’appendicite acuta. Rischiavo la peritonite. Ero spaventato, ma mi calmai all’istante quando seppi che il chirurgo si chiamava Salviddio e mi affidai fiducioso nelle sue mani. Tutto andò per il meglio, tanto che nei giorni seguenti all’intervento mi sentivo così bene da flirtare con la ragazza (giovanissima, aveva un paio d’anni più di me), incaricata di rassettare la stanza in cui ero ricoverato. Alla fine rassettò anche me. Fu quella la mia prima volta.
La vita non si scrive
Ora se qualche lettore tra i più attenti di questo romanzetto volesse instaurare un parallelo tra la ragazza della clinica dove fui operato d’appendicite e Ginevra, l’infermiera del Santa Maria della Scala, diventata ormai uno dei personaggi principali del racconto che state leggendo, è libero di farlo e gli faccio i complimenti per l’intuizione.
Sono sicuro che pure Calvino, inventore nei suoi libri di tanti e spesso bellissimi nomi e cognomi (un esempio per tutti, Silas Flannery, l’autore di best seller di Se una notte d’inverno un viaggiatore), mostrerebbe qualche perplessità davanti alle generalità del chirurgo che deve operarlo e, chissà, chiederebbe di poter intervenire per dare un suo tocco sapiente alla vicenda, almeno dal punto di vista anagrafico, ribattezzando il medico (a mio avviso, Salviddio è un ottima soluzione). Anche se Calvino è il primo a sapere che non si può intervenire nella realtà come si interviene nei romanzi, cambiando nomi, fattezze, caratteri, destini. Ed è questa la vera, grande tragedia, che la vita non puoi scriverla e riscriverla a tuo piacimento. La vita fa come gli pare e, infatti, il mondo è pieno di cognomi sbagliati. Fateci caso.
Avrei scritto un pezzo bellissimo, molto calviniano, se avessi raccontato l’avventura di un chirurgo dal nome sbagliato, ma non potevo farlo. Il capocronista avrebbe cancellato le mie elucubrazioni con il suo enorme e indelebile pennarello nero (un segno inequivocabilmente fallico, direbbe una romanziera contemporanea). E si sarebbe pentito di avermi appena fatto firmare un contratto di praticantato. Dal primo settembre non ero più un cronista precario e alla fine dei previsti diciotto mesi di tirocinio mi si sarebbero spalancate le porte, sarei diventato professionista, avrei avuto diritto all’agognata tessera rossa (ma, secondo me, era granata come la maglia del Grande Torino) rilasciata dall’Ordine dei giornalisti. Il mio capocronista pensava davvero che sarei diventato un grande giornalista, un Giorgio Bocca, un Gianni Brera (erano i suoi idoli). Ero io a non crederci. Ma lui non si arrendeva. Per questo aveva affidato a uno, praticante nemmeno da una settimana, un servizio, quello di Calvino, per il quale gli altri giornali avevano mandato i loro inviati più importanti.
A cosa somigliano questi inviati accampati davanti alla sala operatoria? A iene, ad avvoltoi? Ester Judith Singer, detta Chichita, li osserva. Le hanno consigliato di dar loro qualcosa in pasto per impedire che combinino guai maggiori nella smania di procurarsi informazioni. Allora fa un cenno al branco di lupi affamati e racconta che sono ormai passate più di venti ore da quando è salita sulla Mini-Travel targata Torino guidata da un’amica all’inseguimento dell’ambulanza che portava il marito in ospedale. Le hanno detto di fornire loro più particolari possibile e lo fa nella speranza che poi la lascino in pace.
«Ho parlato con Italo stamane. Era lucido» continua, ma poi non riesce a trattenersi: «Quei titoli, quei titoli dei giornali. Che esagerazione! Lo avete già dato per morto».
Gli inviati non replicano, comprendono il suo bisogno di sfogarsi, lo sanno che spesso si devono prendere la colpa di quanto accade. È un comportamento umano, anche l’avvoltoio più spietato lo capirebbe.
La scena di una commedia
Intanto, ho notato un ragazzo della mia età. Scopro che è il nipote di Calvino, il figlio del fratello minore, il geologo Floriano. Gli chiedo di raccontarmi qualcosa dello scrittore.
«Mio zio è un uomo schivo, parla pochissimo e, al primo impatto, si può scambiare questa ritrosia per superbia. Ma in famiglia siamo tutti monosillabici».
A conferma di quanto sta dicendo, mi guarda come uno che ha parlato già troppo. Capisco che l’intervista è finita. In quel momento, sono le due, dalla sala operatoria esce un’infermiera con una gigantesca caffettiera in mano. Sembra la scena di una commedia di Eduardo De Filippo, commedie che in realtà sono tragedie e, infatti, vi si consumano tante tazze di caffè per prepararsi al peggio. L’infermiera annuncia che l’intervento sta per finire come un’attrice a cui il copione ha assegnato quell’unica battuta.
Passa un’ora e non succede niente. Gli inviati si agitano. Alle quattro decido di fare un giretto. Come se ci fossimo dati appuntamento, trovo Ginevra nella sala delle infermiere. Mi dice che l’intervento è finito ed è andato bene. Le chiedo se posso usare di nuovo la Underwood dell’ospedale sulla quale ho scritto il mio primo pezzo. Mi porta in una stanzetta all’ultimo piano. Una sedia e un tavolino sul quale troneggia la macchina da scrivere. Ha già pensato lei a tutto. Comincio a battere l’articolo. Ginevra torna verso le sette per darmi una copia del bollettino medico. Trascrivo: «condizioni generali soddisfacenti… attività cardiaca normale… sta riacquistando coscienza…».
Alle otto, mentre sto per estrarre l’ultima cartella dal rullo della Underwood, Ginevra si riaffaccia nella stanza: «Calvino si è svegliato e ha chiesto al professor Gambarotta: “Che mi avete fatto?”».
La guardo e la rivedo come l’ho vista stamattina, all’inizio di questo lunghissimo sabato, bellissima, più bionda che mai nel sole che splendeva su piazza del Campo. Ma allora è possibile che questo romanzetto abbia un lieto fine?
(Fine diciottesima puntata – continua)
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