Pioveva a dirotto il 14 maggio 1993. L’orologio segnava le ore 21:35, minuto più minuto meno. In via Fauro, strada dell’elegante quartiere Parioli di Roma, un boato scuoteva i vetri delle abitazioni. I cornicioni crollarono, il muro di recinzione di una scuola si sbriciolò. L’autobomba era stata piazzata lì per Maurizio Costanzo.

Non ci furono morti, solo feriti, tra questi nel bollettino di guerra comparivano due guardie del corpo del celebre conduttore, scomparso poche settimane fa. Il piano per uccidere Costanzo con 100 chili di tritolo nel centro della capitale era firmato Cosa nostra, la mafia siciliana. C’era anche un giovane Matteo Messina Denaro coinvolto nel progetto, catturato dopo 30 anni di latitanza a gennaio 2023.

La bomba di via Fauro è stata la prima di una scia di attentati nel cuore del paese, ha dato il via alla stagione delle stragi sul continente successive agli eccidi di Capaci e via D’Amelio in cui morirono i magistrati del pool antimafia di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e le loro scorte.Nel 1993 la mafia ha seminato morte e distruzione da Roma a Milano.

Con cinque stragi e la programmazione di una sesta, l’attentato allo stadio Olimpico della capitale, nel gennaio successivo, sfumato per un errore tecnico nell’innesco. I morti innocenti sono stati dieci, una novantina i feriti, il patrimonio artistico vero obiettivo di Cosa nostra devastato.

Il 26 maggio un’altra autobomba, questa volta a Firenze in via dei Georgofili nei pressi della galleria degli Uffizi. L’esplosione distrusse la vicina torre dei Pulci e ucciso cinque persone, tra cui due bambini: Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia (nove anni) e Caterina (nata da neppure due mesi) e lo studente Dario Capolicchio. Quaranta i feriti.

Una strana rivendicazione raggiunse le redazioni, a nome della fantomatica Falange armata: le inchieste dimostreranno che la sigla non corrispondeva a un gruppo terroristico, bensì era usata dalla mafia su suggerimenti esterni, di qualche uomo dei servizi segreti che aveva deciso di stare non dalla parte dello stato.

Il 26 luglio lo stragismo di Cosa nostra ha colpito di nuovo a Roma e per la prima volta Milano. Tre autobombe nel giro di poche ore. Le auto cariche di tritolo sono state azionate davanti a due chiese di valore storico inestimabile: San Giorgio al Velabro e San Giovanni il Laterano. Esplodono a distanza di quattro minuti l’una dall’altra. Nessuna vittima, oltre 20 feriti. La tensione nel paese aveva ormai raggiunto il livello massimo. Puntuale arrivava la rivendicazione della Falange armata, come a Firenze.

Poi il silenzio fino al gennaio 1994: doveva essere il colpo mortale alla Repubblica, con l’attentato allo stadio Olimpico di Roma durante la partita Lazio Udinese. L’innesco fallì. Poteva diventare un massacro mai visto in una domenica affollata di famiglie felici lì per la loro squadra.

Non solo mafia

La sigle dal sapore di servizi segreti, la scelta dei luoghi artistici da colpire, il ritorno della strategia della tensione. Possibile che un manipolo di mafiosi con la quinta elementare potesse conoscere i segreti per destabilizzare un paese ferendolo nel cuore? Il sospetto è che Cosa nostra non abbia fatto tutto da sola. E che abbia ricevuto dritte precise sugli obiettivi da assaltare e sull’uso della sigla Falange armata. Ci furono, dunque, mandanti esterni per le stragi di Firenze, Roma e Milano? Ci fu una convergenza d’interessi tra centri di potere, come la massoneria deviata, la destra eversiva e Cosa nostra? Domande alle quali sta tentando di dare una risposta la procura antimafia di Firenze con i magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, condotta con la direzione investigativa antimafia.

L’inchiesta in corso non esclude alcuna pista e sta scavano nel passato per rintracciare tracce dei mandanti occulti delle stragi sul continente. Sono due gli indagati eccellenti: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, ex senatore, fedelissimo del Cavaliere e già condannato per concorso esterno alla mafia.

L’ipotesi di accusa è concorso in strage. Domani ha letto gli atti depositati, le informative, le consulenze e le relazioni finanziarie depositate fin qui nell’indagine. Una mole notevole di questo materiale è relativo al patrimonio dell’ex presidente del Consiglio. Chi indaga sta provando a decifrare l’origine del patrimonio del Cavaliere. Soprattutto in relazione alle dichiarazioni rilasciate davanti ai pm del padrino di Palermo, lo stragista, Giuseppe Graviano.

Graviano, detto “Madre natura”, ha più volte veicolato messaggi all’esterno dal carcere, usando familiari, parlando sapendo di essere intercettato o tramite suoi portavoce liberi di circolare. Quando ha deciso di rispondere ad alcune domande dei magistrati, senza però formalizzare una forma di collaborazione con la giustizia, ha rivelato una storia in cui il protagonista principale è Berlusconi. Per prima cosa ha riferito di un investimento di 20 miliardi di vecchie lire del nonno nelle aziende di Berlusconi. Per i magistrati, tuttavia, Graviano è a conoscenza anche di altri segreti.

Durante un colloquio in carcere è stato intercettato mentre raccontava al suo compagno di ora d’aria di una richiesta ricevuta da Berlusconi di fare «una bella cosa», un riferimento all’attentato di Roma dello stadio Olimpico, evitato per un miracolo.

Secondo l’interpretazione degli uomini della direzione investigativa antimafia la «bella cosa» sarebbe stata quella strage preparata e non realizzata, Graviano sul punto non ha confermato le parole pronunciate durante i colloqui. Anzi ha negato qualunque tipo di riferimento.

Per Graviano la “bella cosa” altro non era che un progetto immobiliare da realizzare sul mare a Palermo, che con Berlusconi al governo avrebbe avuto garanzia di realizzarlo. La procura non gli crede. Accuse e ricostruzioni che secondo gli indagati e i loro avvocati sono pura fantasia di un mafioso sanguinario, una macchinazione architettata per gettare fango su Forza Italia e l’ex presidente del Consiglio.

La casa e i rapporti

Graviano ha una caratteristica: è solito inviare messaggi all’esterno che puzzano di ricatto. Lo ha fatto più volte sfruttando diversi canali, uno di questi è un personaggio chiave di questa storia e dell’indagine di Firenze: Salvatore Baiardo, ex gelataio, in passato condannato per aver favorito la latitanza dei Graviano, scomparso dalla scena e riapparso in tv nel novembre 2022 per predire l’arresto di Messina Denaro durante un’intervista andata in onda nel programma Non è l’arena di Massimo Giletti su La7. Baiardo è pure lui ondivago, alterna racconti lineari ad altri in cui smentisce sé stesso. Per gli investigatori districarsi nella selva di parole di Baiardo è faccenda complessa. I detective lavorano su ogni singola dichiarazione dell’uomo dei Graviano.

Il lavoro di verifica inizia a restituire i primi riscontri anche sulle parole del boss stragista.

Un riscontro rilevante, come ha raccontato Domani, è avere rintracciato un appartamento a Milano 3, il complesso immobiliare creato da Berlusconi, affittato nel 1993 a Emanuele Fiore, deceduto nel 2012, nipote di Antonino Mangano, boss condannato per le stragi sul continente, uomo dei Graviano e loro successore al trono della famiglia criminale. Il 1993 è l’anno in cui sarebbe avvenuto l’incontro, secondo il racconto di Graviano, con Berlusconi. Lo ha spiegato il padrino durante una delle udienze del processo “’ndrangheta stragista” a Reggio Calabria in cui la procura di Reggio Calabria ha dimostrato la partecipazione di un pezzo della mafia calabrese alla strategia terroristica di Cosa nostra. L’incontro sarebbe avvenuto in un appartamento del comprensorio Milano 3, a disposizione del capo mafia latitante. Graviano ha descritto l’abitazione indicando alcuni particolari. I detective della direzione investigativa antimafia di Firenze hanno setacciato le palazzine collegandole ai proprietari e cercando la casa dalla quale era visibile una caserma dei carabinieri.

Alla fine sono riusciti nell’impresa di individuare l’immobile affittato nel 1993 a Fiore, lo zio dell’uomo dei Graviano. Questo non vuol dire però che l’incontro con il Cavaliere sia davvero avvenuto. Su questo resta il mistero e le versioni opposte dei protagonisti. Per i legali di Berlusconi sono menzogne, per Graviano è ciò che è accaduto.

Ma, appunto, Graviano non è un collaboratore di giustizia, molte cose le omette, le ritratta. Per esempio ha sempre negato di aver conosciuto Dell’Utri. Così gli investigatori hanno verificato quanto raccontato da Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia, in merito ai rapporti tra lo stragista e l’ex senatore forzista, in passato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Una vecchia informativa, risalente al 2010, riscontrava la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano e Dell’Utri.

Compresenze a Roma, il giorno 8 agosto 1993, in Sardegna, all’inizio di settembre dello stesso anno, così come in Veneto il mese successivo, e «presenza di Marcello Dell’Utri, il giorno 18 gennaio 1994, presso l’Hotel Majestic di Roma insieme a funzionari e collaboratori di Publitalia 80 Spa, in periodo coincidente con l’incontro tra Graviano e Spatuzza al bar Doney a Roma e con la strage dell’Olimpico che doveva compiersi il 23.01.1994 in danno dei Carabinieri», si legge nell’informativa degli investigatori.

Il summit nell’esclusivo bar Doney è il famoso incontro nel quale Graviano avrebbe detto a Spatuzza: «Abbiamo il paese nelle mani» prima di introdurre i nomi di Dell’Utri e Berlusconi che di lì a poco sarebbe diventato presidente del Consiglio. Un passaggio che avrebbe così chiuso la transizione, segnata dalle bombe e da Tangentopoli, e inaugurando la Seconda Repubblica, con Cosa nostra che avrebbe avuto così, sostengono gli inquirenti, il nuovo referente politico dopo il tramonto della Democrazia cristiana. Gli inquirenti hanno recuperato un colloquio in carcere di Giuseppe Graviano del 1998: lo stragista faceva riferimento a un uomo dei servizi segreti da contattare e anche a un Marcello, che viene identificato in Dell’Utri. Graviano, tuttavia, ha sempre negato questa circostanza.

La foto dei misteri

Di certo oltre alla casa e agli incontri, la procura è a caccia di un documento che potrebbe riscrivere la storia della Prima e della Seconda Repubblica. È una foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, il boss stragista Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. È stato Massimo Giletti a riferire ai magistrati dell’esistenza di questo scatto, che gli sarebbe stato mostrato da Baiardo, l’uomo dei Graviano. Baiardo si è così trasformato presto in una pedina centrale nell’indagine sui mandanti occulti. Lui è il collante che tiene insieme diversi piani: è ritenuto un portavoce dei Graviano, ma è anche a conoscenza, come dimostrano alcuni documenti, dei presunti incontri tra lo stragista Giuseppe Graviano e il magnate fondatore di Fininvest. Correva l’anno 1993, l’anno prima della discesa in campo con Forza Italia.

Baiardo, insomma, è il collegamento tra passato e presente: dai rapporti (ammessi dallo stesso Graviano durante gli interrogatori e negati da Berlusconi) con l’ex presidente del Consiglio alla foto di cui ha parlato Giletti con i magistrati. Baiardo è netto nel sostenere che lo scatto non esiste, i pm al contrario hanno in mano intercettazioni che dimostrerebbero il contrario.Il conduttore, quando è stato sentito dai magistrati fiorentini, ha detto di aver visto l’istantanea e di aver riconosciuto il Cavaliere e il generale Delfino.

Erano immortalati insieme accanto a un terzo soggetto, a detta di Baiardo si tratterebbe di Giuseppe Graviano, ma Giletti non l’ha riconosciuto perché l’ex gelataio ha ritirato la foto senza consegnarla. Delfino è stato un generale dell’Arma dei carabinieri, la sua carriera si intreccia alle trame dei misteri italiani, è morto nel 2014. Il generale dell’Arma era collegato, secondo alcuni pentiti di ‘ndrangheta, al mammasantissima Antonio Papalia, il capo dei capi della mafia calabrese in Lombardia negli anni dei sequestri di persona. Uno dei collaboratori di giustizia, ritenuto tra i più affidabili, si chiama Nino Fiume. Ha raccontato dell’impegno preso da Papalia di evitare in tutti i modi il rapimento di Piersilvio Berlusconi.

Baiardo e la “famiglia”

Baiardo non è un estraneo all’ambiente di Cosa nostra, come vorrebbe far credere. È stato interrogato quattro volte dalla procura di Firenze, questo è certo. «C’è un Baiardo televisivo e un Baiardo che parla coi pm», racconta un investigatore. Molti fatti li aveva raccontati molti anni fa. Erano finiti in un’informativa rimasta senza esito giudiziario. Questo rapporto investigativo è riemerso di recente durante un processo a Reggio Calabria, ne parla Francesco Messina, attuale capo della direzione centrale anticrimine della polizia: «Baiardo ci disse che in quelle telefonate (intercorse tra Dell’Utri e Filippo Graviano, ndr) si evinceva che i du e avevano in comune interessi economici. Nella prima di queste telefonate, avvenute tra il ‘91 e il ‘92, aveva capito che l’interlocutore era Dell’Utri perché Filippo Graviano aveva pronunciato questo nome per farsi annunciare».

Baiardo ha parentele mafiose eccellenti, è cugino acquisito di Cesare Lupo, mafioso di Brancaccio, regno dei Graviano. Un altro legame familiare importante di Baiardo è con la famiglia Greco di Bagheria. Per capire il profilo dei parenti di Baiardo: da Leonardo Greco, «Messina Denaro andava a rapporto da lui» sussurrava un imprenditore intercettato nel 2021 dai carabinieri. Si tratta dello storico capo di Bagheria, la roccaforte di Bernardo Provenzano, il successore di Totò Riina la mente delle stragi del 1992.

Riina è stato arrestato nel gennaio 1993. Provenzano, secondo i pentiti, era favorevole a proseguire con le bombe sul continente. Su queste ultime c’è la firma pure di Matteo Messina Denaro e di Graviano. Trent’anni dopo sulla scena ricompare lo sconosciuto Baiardo, che annuncia l’arresto imminente del primo ed è il portavoce del secondo. Intanto la verità giudiziaria è ancora assente.

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